Il pèlago

4,99

Formato: Epub, Kindle

Autore:Dmitrij Bystrolëtov

Note sull’autore

COD: ISBN: 978-88-5539-319-5 Categoria: Tag: ,

Descrizione

Dmitrij Bystrolëtov (1901 – 1975) è stato una spia sovietica, ma anche medico, giurista, artista, poliglotta, oltre che eccellente scrittore. Richiamato in patria nel 1938, fu vittima delle “purghe” staliniane, sottoposto a interrogatori e torture e condannato a 20 anni di prigionia nei gulag. Rilasciato nel 1954, continuò a scrivere le sue memorie, già iniziate durante gli anni della prigionia, sotto forma di una corposa trilogia dal titolo Il banchetto degli immortali, disponendo che la prima edizione di quest’opera dovesse essere pubblicata in Russia, cosa che fu impossibile per quasi 40 anni. Il nipote Sergej Milašov pubblicò, nel 2012, l’intera opera. Per la prima volta al di fuori dei territori dell’ex Unione Sovietica, Tripla E ha pubblicato i primi due volumi, Ipoteca sull’immortalità e Quattro metamorfosi, a cui fa ora seguito il terzo volume, Il pèlago, tutti con traduzione e note di Alberto Zisa, pubblicazioni che ci permettono di capire meglio che cosa siano stati i gulag siberiani e la situazione dell’Unione Sovietica nel periodo staliniano attraverso lo sguardo di Bystrolëtov, rimasto sempre, nonostante tutte le sofferenze, un sovietico convinto.

 

 

PREFAZIONE

 

Presento la traduzione del 3° volume delle memorie di prigionia della spia sovietica Dmitrij Bystrolëtov. Spia? Sì, anche. Anche medico, giurista, artista, poliglotta. Ma chi ha letto gli altri volumi sinora tradotti si sarà reso conto che il mestiere più congeniale al nostro autore era senza alcun dubbio quello di scrittore: un memorialista con una tecnica narrativa da grande romanziere. Dopo tutto una grande parentela non poteva non lasciargli qualche traccia: figlio (illegittimo: ma nella Russa zarista era considerato tale chiunque fosse nato al di fuori di un matrimonio religioso) di un Tolstoj scrittore (non il grande, però) era tuttavia nipote, nemmeno tanto alla lontana, del grande Lev. Ed a questi paragonabile senza dubbio per la grandiosità di alcune sue descrizioni, la sapienza nel creare certe atmosfere, sia drammatiche – come è naturale in libri di ricordi di una prigionia subita ingiustamente, in compagnia peraltro di numerosi altri intellettuali, spesso di elevata cultura e nobiltà intellettuale di cui un dittatore ancora più folle di un Hitler si volle, per suoi reconditi scopi, liberare – sia di grande umanità, sia spesso anche umoristiche. Perché anche in una situazione disperata come quella in cui vive non perde il suo spirito di osservazione e la sua capacità di capire le profondità dell’animo umano e quindi nemmeno perde la capacità di saper anche sdrammatizzare ogniqualvolta gli risulti possibile.

E per la verità c’era ben poco da sdrammatizzare: i milioni di individui eliminati da Stalin, o direttamente mediante fucilazione o indirettamente tramite deportazione nei gulag siberiani oltre il circolo polare, di dove ben pochi tornarono, non invitavano certo all’umorismo se non a quello amaro dell’oppresso. Tanto più che a questi milioni di eliminati direttamente vanno aggiunti i numerosi familiari che ne seguirono la sorte: perché il regime non mancava di prendersela anche con mogli, mariti, padri, madri e figli, condannandoli, in quanto familiari di “nemici del popolo”, all’emarginazione sociale: perdita del lavoro, perdita dell’assistenza sociale e di ogni diritto. Incalcolabili furono i suicidi soprattutto di mogli di deportati (tra le quali la moglie e la madre dello stesso Bystrolëtov: pagine sublimi, toccanti quante mai mi è stato dato di leggere, scrive a tal proposito nell’ultima parte del V volume, VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE).

Se il primo libro di NEMESI, “IPOTECA SULL’IMMORTALITÀ”, narra del suo imprigionamento e del processo-farsa che ne seguì, con la condanna a 20 anni di “campo di lavoro e rieducazione” e il secondo “QUATTRO METAMORFOSI” del suo soggiorno nel campo di Noril’sk, questo terzo volume tratta del suo trasferimento in un campo dove le condizioni di vita erano relativamente più tollerabili, trattandosi di un gulag per malati. E fu questo che probabilmente contribuì a salvargli la vita, oltre al fatto di essere stato utilizzato come medico durante una parte della sua prigionia, dato che ciò gli risparmiò le spesso intollerabili fatiche del lavoro fisico forzato in condizioni climatiche proibitive. E in questo senso ammalarsi – ammalarsi seriamente, intendo – poteva significare, se la malattia non si rivelava insuperabile, salvarsi la pelle.

Orbene, qui si narra della sua malattia (una pleurite purulenta grave, conseguenza dei traumi toracici subiti durante gli interrogatori generosamente accompagnati da torture; malattia che l’aveva portato sull’orlo della morte) e del suo inserimento nella lista dei tradotti a un gulag con condizioni più tollerabili, dove sarebbero stati “curati”: e ci è facile immaginare in che cosa potevano consistere le cure, a quei tempi. Ricordiamoci che erano gli anni dal 1938 in poi, gli anni della guerra, in cui mancava il necessario anche alla popolazione libera, figuriamoci se medicinali e trattamenti medici potevano essere concessi a “nemici del popolo”! Una scodella di minestra in più e l’esenzione dal lavoro forzato, oltre a un’assistenza sanitaria fatta di buone parole fino alla morte o alla guarigione: questo era il massimo ottenibile in un gulag per prigionieri malati!

Sui gulag sovietici non abbiamo molta letteratura in Italia; conosciamo quel che ha scritto Solženicyn soprattutto, ma ancor più interessanti – perché concordanti in tutto con la narrazione del nostro autore – sono, almeno in parte, i “RACCONTI DELLA KOLYMÁ” di Varlam Šalamov (1907-1982) che visse molti anni, come il Nostro, in uno dei gulag più famigerati, quello della Kolymà, nell’estremo Nord-Est dell’URSS. In uno dei suoi racconti dice chiaramente qual era l’atteggiamento di diffidenza del popolo nei confronti dei tribunali sovietici: dato che gli “organi” del Ministero degli Interni non possono sbagliare e il tribunale deve essere per principio al di sopra di ogni sospetto, esservi convocati, sia pure come testimoni, costituisce già di per sé un fatto da evitare in ogni modo: perché già il solo fatto di aver avuto in qualche modo a che fare con la “giustizia” è una dimostrazione di colpevolezza e se un giudice inquirente indaga su d’una persona significa che ha buoni motivi per ritenerla colpevole: non le resterà altro da fare che confessare, con le buone o con le cattive. Il giudice, per il fatto stesso di essere stato nominato giudice, non può sbagliare: è al di sopra di ogni sospetto (V. Šalamov: op. cit.: racconto I COMITATI DEI POVERI, ed. Einaudi). Questo, in aggiunta ai pieni poteri attribuiti “dal popolo” a un dittatore come Stalin, spiega come poté verificarsi quella catastrofica mattanza che va sotto la denominazione di “purghe staliniane” del 1937-1940.   

Come detto, in questo terzo volume D. Bystrolëtov narra del suo trasferimento, per malattia, a un altro campo di lavoro, più “leggero”, in una chiatta sigillata sul fiume Enisej in compagnia di circa cinquecento malati, di cui si prenderà cura per tutta la durata del viaggio.

Molto ha da raccontare: episodi agghiaccianti, come gli autolesionismi, gli abusi e i soprusi dei criminali comuni sui “politici”, uomini (e donne) che già sono passati attraverso il sopruso di processi-farsa e torture; gli incontri con personaggi interessanti, episodi toccanti e umanissimi, storie d’amore e disperazione, narrati con una partecipazione che non può lasciare indifferente il lettore, episodi umoristici che stemperano la tragedia in un sorriso. E descrizioni magistrali di paesaggi e situazioni: si resterà colpiti dalla narrazione della malattia, sulla quale quasi sorvola mettendo in rilievo invece deliri e visioni da quella provocate; soprattutto colpirà la descrizione di un paesaggio africano: vi sembrerà di essere in pieno deserto del Sahara e di essere in preda a un miraggio: credo che ben pochi scrittori siano stati in grado di far vivere così i fenomeni della Natura quanto questo impareggiabile romanziere dal vero!

Un’avvertenza: qui come nei libri precedenti abbiamo notato come venga spesso usato il termine fascista: a noi suona un po’ strano, perché diamo al termine un significato preciso. Per i sovietici, per i cittadini di educazione strettamente sovietica, era usuale definire fascista tutto ciò che non era puramente sovietico, ovvero la quintessenza del comunismo (senza se e senza ma, come s’usa ora dire): fascista è insomma tutto ciò che viene dall’estero, sia pure da quello sovietizzato, se non approvato da Mosca. Eppure DB per il suo lavoro di agente segreto era stato in ogni parte del globo, e con ogni popolo e con ogni sistema di governo era stato a contatto. Non possiamo pensare che la sua non comune intelligenza non gli consentisse di vedere con chiarezza le luci e le ombre del suo come di ogni altro Paese (e del resto, come si vedrà leggendo, lui stesso non si dichiara alieno dal pensare che ingannare il popolo sia spesso utile ove ciò faciliti la “costruzione del socialismo”). Ma dobbiamo ricordarci che lui scriveva già durante la prigionia, prendendo appunti che, se gli si fossero stati trovati addosso, avrebbero significato condanne ulteriori, non solo per lui, ma anche per i suoi familiari. Nemmeno dopo la liberazione volle abbandonare il suo Paese e pubblicare le sue memorie all’estero (gliele avrebbero pagate a peso d’oro, a quei tempi, in occidente!) mettendo nei guai la sua nuova famiglia: avrebbe voluto che fossero pubblicate in URSS e quindi era giocoforza incensare il regime! Né Khruščov né tanto meno Brežnjev avrebbero mai consentito pubblicazioni in cui si menzionassero cose men che edificanti avvenute in Unione Sovietica. E Gorbačòv era ancora lontano… DB era comunque un sovietico convinto (non avrebbe scelto la professione di agente segreto, in caso contrario): mettiamoci dunque nei suoi panni usando la giusta comprensione. Capiremo meglio il suo mondo e godremo di una narrazione di prim’ordine.

Alberto Zisa

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