Descrizione
Un’antica petineuse, un’immagine misteriosa allo specchio, una ragazza: questi gli elementi principali attorno ai quali si dipana l’incredibile storia, dagli episodi mai risolti fino in fondo.
Le vicende di una donna del passato e di una del presente si intrecciano, nella ricerca di una spiegazione razionale degli eventi; non tutto, però, appare come sembra e i “riflessi” di un tempo trascorso tornano a manifestarsi, ora in modo deciso, ora più lievemente.
Fa da sfondo la città di Torino nei due secoli che ci hanno preceduto, i cui avvenimenti storici, a volte, sembrano solo sfiorare i personaggi, spesso alle prese con dubbi, timori e inquietudini personali.
Il lettore si troverà di fronte a episodi descritti con vena umoristica, ma anche a temi importanti, come l’emancipazione femminile e il senso di appartenenza ad una famiglia, ritrovando valori antichi da riscoprire continuamente.
INCIPIT
CAPITOLO 1
Una domenica di marzo del 1987
«Ma che ore sono?» si domandò Lucia al suono della sveglia. «Le sette? Di domenica? Ma che succede?»
Era una bella ragazza, magrissima, con una massa di capelli ondulati e neri che non stavano mai al loro posto, ma che lei si ostinava a portare lunghi sulle spalle. Un naso leggermente aquilino e un paio di occhi da cerbiatto, facendo trasparire le emozioni, donavano al viso un che di cangiante.
Da pochi mesi si era laureata in Fisica all’università di Torino e, finalmente libera da impegni di studio, stava trascorrendo un periodo di riposo che comprendeva, fra l’altro, delle lunghe dormite fino a mezzogiorno.
Strofinandosi gli occhi, cominciò pian piano a ricordare che aveva un appuntamento e le tornò alla mente la grande riunione di famiglia programmata da mesi.
«Oh, mon Dieu! Mon Dieu!» la voce della mamma riportò definitivamente Lucia nella realtà. «Vieni qui, Torcetto, obbedisci! Non farti rincorrere. Il latte, qualcuno guardi il latte sul fuoco, s’il vous plaît» continuò la madre.
Torcetto, un cucciolo di labrador regalato alla ragazza in occasione della laurea, aveva cominciato bene la mattinata cimentandosi in corse sfrenate per tutto l’appartamento e in vistose scivolate sul pavimento di legno.
La signora Nicastri aveva un temperamento ansioso e la sua svagatezza era tale da dimenticare spesso i lavori di casa “perché devo assolutamente terminare un dipinto ad acquarello”. Quando qualcosa l’agitava intercalava l’italiano con il francese, lingua, quest’ultima, con cui si sentiva più a proprio agio, essendo di origini valdostane.
«Salvatore, Salvi! C’est pas possibile… no, no, quella cravatta non va bene con il tuo vestito; i colori non sono bene abbinati con la nuance della camicia… e toglietemi questo cane di torno. Mi fa inciampare! Ma come è tardi!» andava urlando da una stanza all’altra nella sua vestaglia svolazzante.
Il marito proveniente, invece, dalla parte opposta della Penisola, era un siciliano di poche ma essenziali parole che amava la tranquillità e il silenzio; il suo motto era sempre stato “vivi e lascia vivere”. Osservava tutti ma non interveniva mai nelle conversazioni e non prendeva delle posizioni tanto che, per gli altri, la sua opinione rimaneva sempre un enigma.
Suo fratello Franco, invece, era quello che amava radunare i numerosi parenti sparsi per l’Italia, con la speranza di tenere unita “la sacra famiglia”, come tutti dicevano scherzando. Ognuno aveva la propria vita, con diversi interessi – impossibili da poter condividere data la lontananza – per cui in queste rimpatriate ci si limitava a domandarsi a vicenda notizie sulla salute o come procedeva il lavoro. A volte ci si lasciava andare a vecchi ricordi che suscitavano qualche emozione solo nei membri più anziani.
Le riunioni erano sporadiche, per lo più motivate da occasioni particolari: battesimi, prime comunioni, cresime, matrimoni e funerali. Questa volta, però, il motivo sarebbe stato diverso: lo zio Franco, che abitava con la moglie a Torino, aveva acquistato una casetta a Carema, uno di quei piccoli e tranquilli paesi sulla strada provinciale che porta ad Aosta. Erano anni che metteva da parte i soldi con grande sacrificio e finalmente il suo sogno si era avverato; tutta la famiglia era invitata per l’inaugurazione!
A colazione Lucia domandò al padre:
«Chi ci sarà? Pensi che tutti i tuoi fratelli e sorelle possano venire?»
«Sì, lo zio Pino mi ha detto che dovrebbero esserci quasi tutti.»
“Cominciamo con i ‘Pino’ e poi i ‘Nino’”, pensò la ragazza.
Nella grande famiglia Nicastri, di origini siciliane, la maggior parte dei maschi si chiamava Giuseppe – e quindi Pino – o Antonio – e perciò Nino. E così per le donne, tutte Franca o Maria. Di conseguenza, per distinguerli l’uno dall’altro si diceva Pino di Nino e Maria, che non era il Pino di Nino e Franca e nemmeno il Nino di Franco e Maria. Come se non bastasse, per creare maggior confusione, molti si erano sposati fra cugini primi, quindi si erano incrociati anche i due o tre cognomi che identificavano la famiglia.
Dal momento che molti abitavano a Roma, Lucia soprannominò, per praticità, tutti questi parenti – del nord, del centro e del sud dell’Italia – “i Pini di Roma”, come il famoso poema sinfonico di Ottorino Respighi.
Nel corso degli anni, però, le rispettive mogli del nord avevano tentato di rompere la tradizione: i figli maschi ebbero finalmente altri nomi, mentre le femmine ottennero un’aggiunta al nome della Madonna. Conclusione, Maria Luisa, Maria Teresa, Maria Elena, Maria Letizia…
La madre di Lucia, rivendicando tenacemente le sue origini valdostane, era l’unica a essersi rifiutata categoricamente di sottostare a quella consuetudine.
In queste ricorrenze erano i giovani a sembrare più penalizzati: rinunciavano a uscire con gli amici o con i fidanzati, i bambini quasi subito manifestavano agitazione e allora li si doveva intrattenere con qualche gioco, altri si portavano i libri per ripassare in vista di una verifica a scuola, programmata per il giorno dopo.
Anche Lucia aveva detto al suo ragazzo, Paolo, di andare pure alla gita in grotta che aveva organizzato da tempo, tanto questa domenica non si sarebbero potuti incontrare.
Già, era impensabile defilarsi da queste riunioni: pena il saluto tolto e mai più ripristinato da parte del “consiglio degli anziani”.
L’unica consolazione, oltre a quella di rafforzare l’importante senso di appartenenza a una famiglia, era che la maggior parte di loro aveva un carattere allegro e un notevole senso dell’umorismo, perciò si poteva rischiare anche di divertirsi.
No-name –
Al suo primo romanzo, dal titolo “Il mistero riflesso” (Ed. Tripla E), Marina Maimone ci fornisce una prova di grande abilità narrativa, tracciando la trama di una vicenda complessa, solo apparentemente “ingarbugliata” ma, proprio per questo, intrigante ed avvincente.
Il lettore è invogliato, capitolo dopo capitolo, ad arrivare alla risoluzione dell’enigma che lega due donne vissute in epoche diverse, ma dotate della medesima forza e sensibilità; personaggi femminili che un giorno s’incontreranno, in modo singolare, al di là del tempo e dello spazio, nel riflesso di un’antica specchiera.
L’Autrice utilizza sapientemente la tecnica del “flash back”, in un alternarsi di presente e passato, imprimendo al testo un ritmo quasi cinematografico, ricco di suspence.
Il romanzo affronta tematiche importanti, quali il senso della famiglia, l’emancipazione femminile, l’amore e l’amicizia, secondo un stile scorrevole, moderno ed asciutto, che non concede nulla alla retorica.
Romanzo da leggere tutto d’un fiato, per arrivare ad un finale sorprendente, che resta però volutamente “aperto”.
Prof. Rinaldo Rinaldi –
“In un’altra stanza, accanto a uno dei due letti, i suoi occhi si posarono su un antico mobile da toilette con uno specchio rettangolare e un ripiano in marmo bianco sagomato. Sotto questo, da una parte – con una mezza rotazione – si poteva estrarre un piccolo catino e dall’altra trovava posto un cassettino di legno intarsiato. Il tutto era sostenuto da una struttura in ferro di colore rosa pallido.”
Frequente in letteratura è la descrizione di un tavolo da lavoro o di una scrivania (da Kipling a Perec), ma non usuale è certamente l’immagine dettagliata di quella che gli inglesi chiamano vanity table ovvero tavola da trucco o specchiera da toilette. Questo oggetto, squisitamente e tradizionalmente femminile, campeggia anche sulla copertina del romanzo di Marina Maimone che racconta la vita di due donne, intrecciandole e alternandole in un labirintico gioco di riflessi, appunto. È lo specchio il vero narratore di queste vicende, anche quando non compare, poiché la storia di Lucia, “una bella ragazza, magrissima, con una massa di capelli ondulati e neri che non stavano mai al loro posto”, si proietta ad ogni istante su quella della zia Maria Jolanda, “una donna sui trent’anni, con i capelli neri raccolti in uno chignon, qualche ciocca lasciata cadere sulle spalle nude”. Due generazioni le separano ed è proprio il passato a insinuarsi nel presente ad ogni svolta della vita di Lucia: fatti volutamente banali di un’esistenza, sul filo dell’amore offerto e non realizzato, dell’illusione e del rimpianto, nel cerchio della famiglia, degli studi e del lavoro, sullo sfondo di una Torino autunnale e primaverile insieme. Più marcata nei toni e segnata dal melodramma (con la scelta calcolata di sottolineare il contrasto fra le due esistenze) era stata invece la vita di Maria Jolanda: i poveri inizi, la delusione d’amore, un figlio perduto alla nascita, la degradazione come prostituta, la rinascita con un matrimonio e un lavoro, la morte del marito. E come all’inizio il ritrovamento della vanity table evoca per Lucia l’antico fantasma dell’altra donna, così alla fine per la zia l’inesorabile fluire del tempo si cristallizza in un’immagine, la propria immagine riflessa:
“Un mattino Maria stava osservando la sua immagine riflessa nell’antica specchiera mentre Rosetta era intenta a pettinarle i capelli – continuava a portarli lunghi come da giovane, ma raccolti in uno chignon – quando la donna disse:
‘Sai Rosetta, sono molti anni che mi siedo qui e assaporo questo rito. Sempre mi tornano alla mente tanti ricordi; questo specchio ha praticamente riflesso tutta la mia vita, da quand’ero ragazza a ora’.”
Ricostruire le esistenze, con il loro intreccio di gioia e dolore, è il compito per eccellenza del melodramma, un genere strettamente legato (nei libri e nei film) alla dimensione temporale, alle continue interferenze fra presente, passato e futuro con i loro cambi di registro, con i loro linguaggi mescolati o contrapposti. Il romanzo di Marina Maimone entra a buon diritto in questa famiglia e possiamo allora evocare un maestro del melodramma al cinema, per tornare alla copertina di questo libro: come dimostra con suprema eleganza un recente documentario di Mark Rappaport sulle vanity tables nel cinema di Douglas Sirk, è precisamente la figura della donna allo specchio a far scattare la macchina dei ricordi, il giudizio sulla vita propria e sulla vita degli altri, in un puzzle inestricabile ed affascinante.