Il Giorno dei morti

4,99

Formato: Epub, Kindle

Autore: Filippo Semplici

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-6690-041-2 Categoria: Tag:

Descrizione

Marcialla è un piccolo borgo della campagna toscana, ridente nella bella stagione, ma che conosce i suoi momenti di nebbia umida e gelida, durante l’inverno. La gente è semplice, si esprime in stretto dialetto toscano ma, soprattutto, è molto gelosa della sua identità e della sua peculiarità, insomma, Marcialla “fa paese a conto suo”, e gli estranei non sono molto ben accetti.

Lorenzo, un facoltoso chirurgo fiorentino, ha ristrutturato nei pressi di Marcialla un grande casale di campagna ereditato da una zia, ed intende trascorrervi una parte della settimana, lontano dal traffico e dallo smog cittadino. La prima persona con cui entra in relazione è Anselmo, il becchino: da lui Lorenzo apprende che Marcialla ha un suo giorno speciale, il Giorno dei morti. Non si sa quando capiti, ma in quella giornata particolare i morti risorgono: non tutti, certo, soltanto chi vuole, per rivedere le persone conosciute durante la vita, amiche o nemiche.

Dapprima scettico, Lorenzo sperimenterà di persona la veridicità del fatto, perché Irma, la zia di cui è l’erede, uscirà dalla tomba per cacciarlo dalla sua casa e per ucciderlo, perché Lorenzo cela un terribile segreto. Grazie all’aiuto di Anselmo e di altri suoi amici, Lorenzo riesce a sfuggire a Irmapazza, come veniva soprannominata la vecchia zia, ma, quando vorrà divulgare ciò che accade nel piccolo borgo, troverà l’opposizione di Anselmo e degli altri suoi compari, disposti a tutto pur di fermare quel “cittadino” che non vuole accettare di rispettare l’incomprensibile, quello che non si può spiegare e che deve essere difeso dalla sete di conoscenza dell’uomo. Il rispetto per l’incomprensibile – e per la morte – non è disgiunto dal rispetto per la vita, che è sacra, ma che l’uomo troppo spesso non rispetta: non è rispetto avvelenarsi con droghe, alcol, fumo, né sottoporsi al bisturi per motivi puramente estetici o, peggio ancora, decidere della vita e della morte di un bambino non ancora nato. Anselmo e i suoi amici non esiteranno a difendere con tutte le forze il segreto del Giorno dei morti, che appartiene soltanto al loro borgo.

INCIPIT

La vecchia fissava la tomba, immobile, le mani congiunte in una preghiera silenziosa, il velo nero a coprirle i capelli, gli occhi stanchi a riflettere lapidi e marmo come se non avessero mai visto altro. Le labbra screpolate si mossero in un bisbiglio che il vento si portò via. Allungò una mano e sfiorò con dolcezza la lapide, la foto dell’uomo. Tremò quando la toccò con la punta delle dita. Il suo ultimo saluto fu una lacrima che le rigò il volto segnato dall’età, in un frangente ovattato senza tempo e suoni. Prima di andarsene sciolse nell’aria poche parole, come petali risucchiati dal vento d’autunno, poi scomparve, ombra tra le ombre, oltre il cancello del cimitero. Un merlo gracchiò le sue note stonate dal ramo più alto di un abete.

Lorenzo restò fermo dov’era, il giaccone ben chiuso e una monetina che si divertiva a far saltellare da una mano all’altra. La vecchia lo aveva sfiorato mentre procedeva a testa bassa, ripetendo le stesse strane parole come l’eco di un’agghiacciante litania e lui, senza volerlo, aveva rubato quei sussurri biascicati ai fantasmi della solitudine e della vecchiaia. Si era sentito un impiccione stupido e curioso. Si chiese perché mai avesse deciso di visitare proprio il piccolo camposanto del paese. Era appena arrivato a Marcialla e quella era stata la sua prima tappa. Una voce alle sue spalle interruppe la sua concentrazione.

“Pensieri pe’ la testa?”

La monetina gli sfuggì di mano e cadde a terra. Lorenzo si voltò, sorpreso. Un uomo dall’aspetto un po’ trasandato se ne stava a pochi passi da lui. Teneva in mano una vanga sporca di fango e indossava pesanti stivaloni sozzi di terra fresca. Con un gomito poggiato al manico dell’arnese conficcato a terra, lo osservava divertito. Non l’aveva neppure sentito avvicinarsi.

“Prego?” rispose Lorenzo.

“Oh, un la volevo disturba’” proseguì l’uomo. “Mi scusi. Però mi pareva un po’ soprappensiero. Tant’è che l’è finito co’ piedi nella mota e un se n’è neanche accorto.”

Lorenzo si scosse dal torpore che l’aveva avvolto e abbassò lo sguardo. Il fango che cresceva ai bordi di una lurida pozzanghera aveva risucchiato avidamente la suola delle sue costose scarpe.

“Ma porca…” si lasciò sfuggire. “Mi scusi per l’esclamazione, ma è davvero seccante.”

L’uomo soffocò una risata che Lorenzo colse e ignorò. D’altra parte capiva perfettamente quanto la situazione lo rendesse comico agli occhi di quella persona così apparentemente rozza. Vedere un giovane come lui, ben vestito e pulito, finire con i piedi nel fango perché intento a contare i moscerini, era una cosa che divertiva, anche solo per il gusto di veder ridicolizzare la sua bella immagine. Se non fosse stato così seccato, forse avrebbe trovato la forza di riderci sopra anche lui. Si pulì le suole sui ciuffi d’erba che spuntavano vicino, poi recuperò la buona educazione e tornò a rivolgersi al suo interlocutore, che ancora lo fissava.

“Devo essere davvero comico” ironizzò.

“No, ma che dice? Io ci passo tutti i santi e benedetti giorni co’ piedi ni’ pantano! E un mi sento pe’ nulla comico.” Alzò gli stivali mostrando le suole imperlate d’acqua e umidità. “Vede? Solo che io mi vesto a i’ mercato di’ martedì e non nelle buticche o come cavolo dite voi giovani.”

Lorenzo afferrò l’insinuazione ma ancora una volta fu abile nell’evitarla con eleganza. Si limitò a rivolgergli un sorriso sincero e trasparente, che trasmetteva rispetto per i ranghi di appartenenza. L’uomo sfilò la vanga dal terreno e se la caricò in spalla con un gesto rapido. Si passò una mano callosa fra i capelli fradici di pioggia, poi sputò qualcosa per terra. Avanzò a passi decisi verso di lui e gli tese la mano.

“Comunque io so’ Anselmo. I’ custode di’ cimitero. Nonché becchino. Piacere.”

“Piacere.” Lorenzo gli strinse la mano con forza. “Lorenzo Carrisi.”

“Lei un n’è di qui, giusto?” lo squadrò storcendo il naso.

“Affatto. Vengo da Firenze, ho ereditato un casolare da queste parti. L’ho ristrutturato e adesso è come nuovo. Ho intenzione di trasferirmi al più presto. Per ora mi tratterrò solo pochi giorni.”

Il becchino sembrò per un momento chiudersi in un silenzio privo di logica, che d’un tratto aveva bruciato la sua apparente loquacità. La sua espressione era mutata non appena si erano presentati e aveva udito il suo nome. Lorenzo Carrisi. Che lo conoscesse? Impossibile. Era tanto tempo che non tornava in quei luoghi e dubitava di essere un medico tanto famoso da essere riconosciuto per strada come una popstar. Osservò con sottile disgusto la magra figura del becchino, che a occhio e croce dimostrava più di settant’anni: le tasche sfondate dei jeans, le dita delle mani curve come artigli, deformate dal lavoro e dall’età. L’uomo ricambiava a sua volta ammirando con falsa indifferenza la linea perfetta dei suoi costosi pantaloni e il modo elegante con cui ricadevano dolcemente su altrettante costose scarpe. Fu Lorenzo il primo a riprendere la parola, mettendo fine a quel reciproco, inutile confronto.

“Dica” lo esortò con un cenno della testa. “Si vede così tanto che sono forestiero?”

L’uomo si schiarì la voce. “Beh, da queste parti, bestioni come i’ suo” e indicò l’Audi Q7 parcheggiata lungo la strada “si usano pe’ lavora’ ne’ campi, non pe’ fa’ un salto a i’ supermercato. E si chiamano trattori.”

Lorenzo si rese conto che per un piccolo paese come Marcialla, lontano dal turismo, dalle folle, dalle città, dalle autostrade e dalle code nell’ora di punta, l’arrivo di una persona come lui, a bordo di un fuoristrada da quasi settantamila euro, doveva rappresentare ben più che una sorpresa. Un po’ come l’arrivo di un marziano. In fondo il becchino stava solo cercando di curiosare un po’ nella sua vita senza esporsi troppo per non apparire maleducato. Poche domande ma al punto giusto. Lorenzo decise di soddisfare in anticipo la sua curiosità.

“Sono un medico chirurgo e le assicuro che certi miei colleghi troverebbero la mia auto un po’ troppo economica per i loro gusti.”

L’uomo sbottò in una risata goffa e chiassosa. “Pe’ la miseria infame!” tossì portandosi una mano alla bocca. “Dovrebbe cambia’ colleghi, sa?”

“Già” rispose lui tirando un sospiro di sollievo. “Lo credo anch’io.”

“Comunque un mi voglio fa’ gli affari suoi, s’intende. Dicevo così, pe’ dire.”

La tensione si era sciolta di un poco. Lorenzo era riuscito a superare l’iniziale ostilità del primo cittadino che gli aveva rivolto la parola, un’ostilità camuffata da timida curiosità. Svelato qualcuno dei suoi misteri, l’atmosfera adesso sembrava tornata alla normalità. Il becchino pareva di nuovo sereno e ben disposto al dialogo. Bene. Dopotutto non voleva suscitare invidie o rancori in coloro che sarebbero divenuti a breve suoi compaesani. Doveva approfittare di quell’incontro casuale e iniziare a farsi conoscere, così da evitare altri tipi di problemi con gente magari più chiusa e restia ai forestieri. Cercò di mostrarsi calmo e gentile. Sfoggiò uno dei suoi migliori sorrisi.

“Non si preoccupi, non sono un tipo permaloso.”

Mentre rispondeva, Lorenzo posò lo sguardo su una lapide alla sua destra. Sul marmo bianco luceva la fotografia di una donna bionda in abito da sposa. La tomba traboccava di crisantemi, tanto che il loro odore pungente aveva invaso l’intera area del piccolo cimitero. Una corona di fiori bianchi era adagiata contro il marmo e lasciava svolazzare al vento un drappo color argento con la scritta Ora e per sempre, l’unica donna della mia vita. Lorenzo aggrottò le sopracciglia.

“Oh, quella l’è la Margherita” lo anticipò il becchino. “Cirelli Margherita. Morta i’ giorno di’ su’ matrimonio. Una cosa tremenda. Incidente d’auto durante i’ servizio fotografico. I’ marito s’è salvato, ma lei un ce l’ha fatta. Un vero dramma. Ma icché dico? Una tragedia! Pensi che l’hanno seppellita co’ l’abito nuziale indosso, povera creatura. Non aveva ancora trent’anni. E l’ha vista quella vecchina che prima l’era a i’ cimitero? Quella co’ i’ fazzoletto nero in capo? L’è l’Argia. Pe’ poco un ci rimaneva secca anche lei in quell’incidente. L’era su i’ ciglio della strada, tornava da vendemmia’ quando vide la macchina che le veniva incontro. Pe’ fortuna ruzzolò lungo i’ greppo e così ebbe salva la vita.”

Lorenzo annuì fingendo costernazione. D’improvviso gli tornò alla mente la frase che aveva sentito bisbigliare proprio a quella vecchia signora, l’Argia, quando lo aveva sfiorato passando. Era una frase banale che però era riuscito a incuriosirlo. Gli era rimasta particolarmente impressa perché si riferiva a una ricorrenza che mal si incastrava con il periodo dell’anno in cui si trovavano o forse gli era rimasta impressa per la rigorosa espressione di fede scolpita nel volto della donna mentre la pronunciava. Si strinse ancor di più nel giaccone e infilò le mani in tasca. Quando parlò, nuvoline di vapore danzarono fuori dalla sua bocca e si dissolsero nel vento.

“A proposito di quella signora, l’Argia” disse Lorenzo indicando con un cenno della testa la tomba sulla quale l’aveva vista pregare “prima l’ho sentita dire qualcosa di curioso.”

Anselmo spalancò le braccia. “Bah. L’Argia l’è una vecchia matta. Ce n’ha più di novanta sulle spalle. Chi lo sa icché le passa pe’ la testa.”

“Non so. Bisbigliava da sola. Pregava. Diceva qualcosa a proposito del Giorno dei morti.”

A quelle parole Anselmo sembrò bloccarsi di colpo, come se un chicco di grandine grosso come un pallone fosse piovuto dal cielo e l’avesse centrato in piena testa. Lorenzo notò il suo sgomento e ne fu sorpreso, al punto di temere di averlo messo in difficoltà senza volerlo. Era già pronto a scusarsi, anche se non sapeva bene di cosa, quando Anselmo recuperò il miracolo della parola.

“I’ Giorno de’ morti, eh?” disse poi alzando le folte sopracciglia.

“Beh, sì. È per questo che mi ha incuriosito. Siamo in febbraio, non a novembre.”

“In febbraio. Già” ripeté meccanicamente lisciandosi il mento. “E poi icché altro gli ha detto, quella grulla?”

“A me niente, gliel’ho detto.” Lorenzo si strinse nelle spalle. “Parlava tra sé. Io mi trovavo vicino e ho sentito quello che diceva. Ripeteva in continuazione la stessa frase. Ti aspetterò nel Giorno dei morti o Ci rivedremo nel Giorno dei morti. Cose così.”

“Già, porco mondo. I’ Giorno de’ morti” soffiò acido Anselmo. “E icché altro, sennò? La vecchia Argia l’aspetta da tanto ormai. E io penso che stia pe’ arriva’” tirò su col naso. “Mi crede? Si fiuta nell’aria.”

Anselmo ruotò la testa in alto come a fiutare davvero l’aria. Sembrava un segugio a caccia dei mille odori confusi che quella fredda serata invernale poteva offrire. Lorenzo invece temeva di aver appena perso il filo del discorso, forse per distrazione. Era disorientato.

“Arrivare cosa, scusi?” domandò sottovoce.

Ma Anselmo non gli prestò attenzione. Incrociò le mani dietro la schiena e mosse qualche passo lungo il perimetro di poche tombe. Poi si arrestò e sembrò prendere un gran respiro. Proseguì a parlargli dandogli le spalle.

“Sa, l’Argia l’ha perso i’ marito da quasi un anno. È  l’uomo che ha visto nella foto e lei avrebbe tanta voglia di rivederlo ancora.”

“E per questo sta aspettando il due di novembre?” chiese Lorenzo, sgomento.

Anselmo si fece serio. “Vede, le cose un sono sempre quelle che sembrano. Lei l’è un uomo di scienza, noi invece solo poveri ignoranti. Ma c’è più verità a volte in una bolla d’aria che in un libro stampato. Con questo voglio di’ che un ne sto parlando di’ due di novembre, giovanotto.” Si schiarì la voce, poi seguì un attimo di pausa. “Sto parlando di’ Giorno de’ morti. Quello nostro.”

C’era fierezza nelle sue parole. Fierezza e orgoglio. Come se quelle poche sillabe racchiudessero un segreto di cui essere gelosi ma anche responsabili. Stava alludendo senza ombra di dubbio a chissà quale vecchia tradizione paesana. Lorenzo, dal canto suo, rimase immobile senza dire nulla, senza ancora una volta capire e di nuovo si sentì comico agli occhi del becchino. Peggio. Inadeguato. Poteva concedersi un medico, un laureato come lui, di sentirsi inferiore a un umile custode di tombe? Tuttavia stentava a recuperare il controllo e la sicurezza di sé. Una leggera brezza si era alzata a spettinargli i capelli e scompigliarli in mille direzioni. A malincuore sottrasse una mano al tepore della tasca del giubbotto e la adoperò per difendersi la pettinatura.

“Il vostro?” biascicò mentre rimetteva la mano al caldo.

“Proprio. I’ nostro” e gli mostrò un sorriso sdentato.

“Capisco.”

Lorenzo sospirò. Forse il becchino del cimitero di Marcialla era anche lo scemo del villaggio. Ogni paese ne aveva uno fino a prova contraria, ma il fatto che queste due figure quasi caricaturali convergessero nella stessa persona rendeva la cosa non solo insolita ma addirittura grottesca.

“No” lo freddò improvvisamente Anselmo. “Lei un capisce affatto.”

Quelle parole furono quasi un rimprovero. Il cielo, di colore plumbeo, per un attimo rifletté il grigio opaco dei suoi occhi infossati, come fossero fatti della stessa materia. Anselmo gli volse le spalle e si incamminò verso una specie di baracca, al centro del cimitero. Gli parlò senza girarsi indietro.

“Venga con me. Le offro da bere.”

La baracca era in realtà il rifugio del custode, il suo quartier generale, per così dire. C’erano un piccolo sofà verde scuro e un mobiletto che sopportava il peso di una vecchia TV in bianco e nero. Poco oltre un tavolo, una sedia e un telefono. Un attaccapanni sgraziato spuntava dall’angolo estremo della baracca e due mensole scricchiolavano sotto il peso di bottiglie piene e vuote, insieme a vecchi registri ammuffiti. Una stufa a legna spenta riposava sotto un panno a quadri. Il becchino si sedé alla scrivania. Lorenzo si accomodò sul sofà, che tentò di inghiottirlo. L’attimo successivo Anselmo era dinanzi a lui e gli porgeva un bicchiere riempito fino all’orlo di un liquido chiaro.

“Tenga” glielo sistemò tra le dita intirizzite dal freddo. “Questa la riscalderà. L’è grappa. Di’ mi’ campo. Una bomba atomica, gliel’assicuro. Provi” e sghignazzò.

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