Descrizione
Inventare un personaggio, prenderlo per mano e avviarsi con lui lungo plausibili percorsi della vita reale: ecco l’idea di partenza di quello che l’Autrice definisce “un possibile romanzo”. Il personaggio è Ersilia, una donna ormai anziana, abituata a lavorare “come le donne di una volta”, duramente, da contadina, con le sue mani, nonostante sia ricca e possieda “mezzo paese”.
Il falcetto che dà il titolo al romanzo è un oggetto che Ersilia ha ricevuto dal padre all’età di circa sei anni, quando l’oggetto dei suoi desideri era invece una bambola con il viso di porcellana e lunghi boccoli biondi: regalo più prosaico, il falcetto, ma certo più utile per fare erba per i conigli, vendemmiare, scalzare dal terreno cicoria, carote, funghi, o decapitare una folaga da fare arrosto. Per Ersilia non c’erano mai stati giochi ma, figlia maggiore di dodici tra fratelli e fratellastri, soltanto lavoro e ancora lavoro. La guerra – e l’occupazione nazista – avevano portato a Ersilia e ai suoi fratelli anche fame e violenza: per difendersi e vendicarsi, ecco che il falcetto, oggetto emblematico, attrezzo e arma al tempo stesso, mostra ancora una volta la sua utilità.
Anziana, Ersilia muore come ha sempre desiderato: di schianto, nella macchia, senza malattia, senza ospedale, senza agonia.
È tempo, per l’Autrice, di lasciare la mano del suo personaggio, che ormai vive di vita propria, come tutti i personaggi veri dei buoni romanzi.
INCIPIT
“A quando il romanzo?” mi è stato chiesto qualche giorno fa.
Rifletto.
Ho scritto tante cose, persino una “silloge” e, diciamolo, silloge è una paroletta niente male quanto ad importanza!
Silloge, ma non un romanzo.
Mi documento.
Romanzo: narrazione in prosa di largo respiro.
Largo respiro. Ecco dove casca l’asino insieme con l’efficacia del mio scrivere.
Gli afflati dei miei racconti, quasi essi fossero colpiti da un enfisema cronico, sono sospiri sommessi, niente che possa allargare i polmoni in un “Ahhh…!” di stupefatta ammirazione o di pathos avvolgente o, per l’appunto, di “largo respiro”.
Peccato!
Ricordo, però, quanto mi fossi divertita nello scrivere la “possibile” storia, una storia molto contenuta, non sviluppata, assolutamente priva d’ampi respiri.
Ricordo anche che lo scrittore Graham Greene, molto tempo prima che fossero inventati i DVD, riferendosi ai suoi primi romanzi, parlava di entertainments.
Ora, se è l’entertainement che voglio, fosse quello modesto d’inventare un personaggio, prenderlo per mano ed avviarmi con lui lungo plausibili percorsi della vita reale così com’è, com’è stata e come sarà, sperando, riguardo a quest’ultima, che sia migliore di quanto la immagini, non vedo perché non possa divertirmi a trasformare le mie paginette in:
Un possibile romanzo dal possibile titolo:
Il falcetto
Inizio…
Un tuffetto, intento alla sua prima colazione, spariva nell’acqua per riapparire incredibilmente lontano dal punto d’immersione, in uno sfavillio di cerchi luminosi che raccoglievano le prime luci rosate dell’alba.
Dal folto del canneto giungeva il richiamo petulante di un cuculo probabilmente in cerca di un nuovo nido abusivo.
Vagabondo impenitente ed arrogante, del tutto estraneo al fascino del ritorno, così caro alle rondini, l’uccelletto si dava da fare per impossessarsi di una casa per la quale non aveva lavorato, pronto ad abbandonarla se lo avesse ritenuto opportuno.
Ersilia, indifferente sia ai giochi dell’anatroccolo, sia alla voce insistente dell’uccello, come ai colori di un’alba raggiante, s’accaniva con il suo falcetto a raccogliere canne che accumulava in un fastello, sempre più grande, fino a che il suo occhio esperto non avesse ravvisato i limiti della propria capacità di caricarselo sulle spalle.
Come le donne di una volta.
Lei era donna di una volta!
Fazzoletto in testa, vestaglia grigia a fiorellini neri, grembiule scuro, calze di cotone fermate a mezza coscia da un elastico. Niente la distingueva dall’immagine che conservava e della madre e della matrigna.
Era stata programmata perché diventasse così: una donna abituata a faticare, senza fare tante storie.
Però le piaceva!
Le piaceva essere lì, alla brezza fresca che veniva dal lago, negli umori inconfondibili di torba, di canne macerate, interrotti dagli afrori di resina e di muschio che salivano dalla macchia.
Il sole cominciava a scaldare un po’ troppo. Il cuculo s’era azzittito.
Sbuffando (gli anni passavano anche per lei), Ersilia trascinò il fascio di canne fino alla bicicletta che aveva lasciato all’inizio del sentiero, lo caricò sul manubrio e s’avviò attraverso la pineta appoggiandosi alla bici, come se fosse uno dei trespoli con cui si trascinavano lungo i corridoi certi ospiti dei “Poveri Vecchi”.
C’era stata una volta a trovare una conoscente e “Gesù – aveva pregato – fammi morire nei campi, fammi schiantare in riva al lago, nella macchia, ma non portarmi a finire qui, in questa tristezza!”
Mentre attraversava il fossato che divideva la tenuta del Conte da una striscia di terra di nessuno, la vide: giovanissima, sedici, diciassette anni. Se ne stava accovacciata per i suoi bisogni, tranquillamente impudica, esposta, senza aver cercato un angolo che la proteggesse da sguardi indiscreti. Quando s’accorse della presenza dell’Ersilia terminò disinvoltamente quello che stava facendo, salutò la donna con uno sberleffo poi si voltò e, alzando l’ampia gonna sul sedere nudo, le indirizzò una sonora scoreggia.
“Quella puttana!” pensò l’Ersilia mentre passava davanti alle baracche che da un po’ di tempo erano spuntate come funghi sotto il ponte dell’autostrada.
“Neanche i polli ci metterei!”
Erano persone, invece, che vivevano in quel luridume, appena protette da teli di plastica, da cartoni, da lamiere. Anche bambini, anche donne incinte…
“Impestano il paese!” diceva la poco tenera Ersilia. “Te li trovi dappertutto! Sempre a chiedere, a chiedere… Mai a lavorare!”
Dimenticava l’Ersilia che i suoi nonni, con molti paesani, avevano “impestato” altre terre durante le grandi emigrazioni italiane.
E da allora non era poi passato tutto quel tempo!
Persino il Conte, che sorvegliava da un ritratto un po’ sbiadito i mobili in puro stile fiorentino della villa, aveva un suo trascorso d’emigrante, non particolarmente onesto, che gli aveva fruttato un bel gruzzolo.
Il “Conte”, allora privo di qualsiasi titolo nobiliare, era tornato giusto in tempo per convolare a nozze con una contessina il cui anemico lignaggio aveva urgente bisogno di una trasfusione di buon sangue plebeo, e il cui patrimonio, quasi del tutto dissipato, necessitava di un’iniezione di buon autentico denaro, anche se di non troppo nobili origini.
Le cose, poi, erano andate per uno strano verso.
Il robusto giovanotto s’era beccato la tubercolosi dalla pallida mogliettina, che n’era portatrice sana, e non aveva potuto godere a lungo dei nuovi privilegi.
La moglie, invece, aveva avuto modo di rallegrarsi per diverso tempo della volgare ricchezza e lo aveva fatto senza riserve frequentando quanti bei giovanotti le fossero venuti a tiro (ci aveva preso gusto), senza però risposarsi mai.
Così quando era morta, vecchissima, non aveva lasciato eredi.
La villa era rimasta vuota, ammuffita sentinella delle baracche dalla ben diversa situazione di densità demografica.
Non sembra così difficile questa faccenda del “romanzo”.
Vado avanti tranquilla…
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