Descrizione
Il cielo e il fango è il tracciato di una via di fuga, non “da”, ma “verso” qualcosa o Qualcuno. Una fuga non priva di sofferenze, ma la posta in gioco è alta, è la comprensione del mistero non della vita, ma della propria vita.
Umberto, il protagonista di questo “quasi romanzo”, che segue e completa il precedente Andrai e tornerai, a quarant’anni lascia il saio di frate francescano perché si accorge di vivere impastoiato dai dettami evangelici. Penitenza, ascesi, mortificazione, purezza non hanno valore, se non se ne conosce il libero uso.
Ma questo Umberto Castagna è un pittore. Forse non avrà usato pennelli, spatole e colori, ma dipinge bellissimi paesaggi colorati con bellissime parole. E poi, qua e là, una citazione di sapore classico, una frase d’autore, un richiamo ad un sapere antico. Umberto è certamente un uomo di cultura. Una cultura profonda che gli viene da dentro, che è tutt’uno con lui. Non ne può fare a meno. Che bello sentirsela proporre in questo periodo di letture improponibili gravide delle tre S, sangue sesso soldi, che sembrano essere le condizioni essenziali per un felice marketing!
Ma le sue pagine non sono sempre facili e fanno pensare e ripensare.
Del resto, lasciare il mondo protetto del convento, ha significato per lui dover imparare a vivere e, molto prosaicamente, anche imparare a guadagnarsi da vivere, magari facendo il venditore porta a porta di enciclopedie o il rappresentante di occhiali, ma tutto questo, benché difficile e sovente frustrante, è sempre meglio che continuare a camuffarsi con una tonaca marrone che non ci si sente più di portare.
Seguire i binari tracciati da altri, lasciarsi andare, è il modo migliore per perdersi; per Umberto, rimanere francescano e sacerdote avrebbe significato semplicemente consegnarsi al disprezzo di se stesso. Meglio, dunque, avere il coraggio di dubitare, di mettersi in una posizione di ricerca, guardarsi impietosi, mettersi a nudo attraverso l’analisi o anche attraverso la scrittura. Allora, il dubbio diventa risorsa. Il messaggio che ci lascia Umberto è che, a volte, il fatto che Dio si nasconda ai nostri occhi è una grazia. Ci costringe a non cercare Lui, ma noi stessi. Ritrovandoci, Lo troveremo.
O, comunque, possiamo coltivare questa speranza.
Tutto questo con una lingua scorrevole e suasiva, come quando scrive e descrive le vicende del quotidiano, quelle comuni a tutti, quelle che “sono” la vita! C’è infine una così grande tenerezza nei quadretti familiari da assolverci per sempre dal compito di trovare altrimenti il “senso” dell’esistere.
B. Nizzola
INCIPIT
I giorni passano dopo i giorni, non si ferma il tempo. Il suo scorrere è silenzioso, beffardo, eppure dolce nel suo illudermi. Per questo il tempo mi piace sentirmelo fluire addosso così: da un poggio aperto e ridente, da un belvedere, oppure da una collinetta dischiusa sulle città o sulle campagne, meglio se è una campagna a splendermi vicina e la città si perde nella lontananza, distante allo sguardo, quasi separata dalla mia stessa labile realtà. Il sole scalda viso e mani, gli occhi si socchiudono filtrando solo colori, le case lontane e l’intreccio di vie della città si confondono, non più nitidi, nelle tremolanti linee di un immaginario De Pisis ubriaco di bagliori, e tra me e gli affanni della vita urbana si pone e germoglia un cromatismo folle di verdi e rosa e gialli, alberi e casali e orti…
È così che mi piace sentirmi scorrere il tempo sulla pelle, mentre mi avvinco stretto ai colori della vita e mi fingo infinito, e il naufragar m’è dolce…
Quanta indolenza, però, hanno ormai accumulato in me gli anni, in questo fluire canzonatorio del tempo. Una gradevole pigrizia mi trattiene ormai tra i quattro muri della mia stanza, perché sarebbe duro, anche per tuffarmi nei colori e nella luce, prendere il bastone fedele compagno dei miei passi e avviarmi a un’altura fuori casa e fuori città e fuori tutto.
Da qui, da questa stanza amata, visito ormai sempre più spesso il mondo, e le pareti che la circoscrivono non mi appaiono più così chiuse e limitative. Anzi, da tempo vi ho scoperto insospettabili passaggi e vie di fuga, gli scaffali traboccanti dei libri prediletti lasciano filtrare abbaglianti fessure luminose, e da quei volumi scaturiscono panorami illimitati, e i verdi e i rosa e i gialli di alberi e di casali e di orti mi entrano ugualmente nell’anima come se fossi su di un colle, e io d’immenso m’illumino.
Ecco, là, su quello scaffale ci sono Paolo e Giovanni e Luca, stretti a Clemente Romano e ad Ignazio di Antiochia e ad Ireneo, e, poco discosto, a un frate dai più ignorato, fra’ Tommaso da Celano, che però scompiglia un po’ le carte per il salto di secoli e di argomenti che fa compiere, e parla di un certo Poverello e di certi suoi primi frati che – dice – “erano così pieni di santa semplicità, di innocenza, di purezza di cuore, da ignorare ogni doppiezza. Come unica era la loro fede, così regnava in essi l’unità degli animi, la concordia degli intenti e dei costumi, la stessa carità…”
Anni carichi di genuino entusiasmo e di ingenua fiducia, gli anni della mia fresca e schietta adolescenza, sono racchiusi e consacrati in quelli e in cento altri libri avidamente bevuti dalla mente aperta al bello e al buono e quindi a Cristo e a Francesco.
Basta che io sposti lo sguardo, però, e i secoli si accrescono a dismisura, e da questi miei scaffali che coprono e arricchiscono le pareti del mio studio si affacciano nomi e uomini e storie, quasi sempre spalla a spalla con quelli che contengono Paolo e Giovanni e Ignazio, ma quei nomi e quegli uomini e quelle storie scoprii, avidamente leggendoli, che erano di spessore e di significato così diverso dai primi e da essi così discordanti che la stessa mia esistenza ne fu contagiata e contaminata. Cosi, dal ragazzo innocente che io ero, con rapida evoluzione divenni uomo problematico, e mente piena di interrogativi irrisolti, uomo che – a un momento critico della vita – si chiese perfino come sia potuto diventare un enigma per se stesso. I libri che lessi in quegli anni, e che ora sono qui intorno a me e mi raccontano la mia e la loro storia e il loro tormento, mi dicono appunto che l’interrogativo non è più soltanto “chi sono io?” ma addirittura: “che senso ha tutto?”
Cosa doveva succedere in quel periodo fatale – breve, per fortuna – alla mia vita semplice e ingenua dal momento in cui (dopo avere per anni esibito e dichiarato certezze addirittura metafisiche) cominciai a pormi domande devastanti come quelle, senza sapere più rispondere? C’era bisogno di arrivare a Kierkegaard e a Sartre e a Gide quando già Agostino e Pascal avevano i loro problemi? È il tempo nel quale “pare – ha scritto Gabriel Marcel – che sia stato messo a nudo un certo cuore sanguinante dell’essere umano, dell’esistenza umana.”
Sulla ferita del mio cuore sanguinante ci ho scritto un libro, “Andrai e tornerai”, e quei due o tre anni di angoscia e di analisi profonda, sono oggi pagine di un “quasi romanzo”, nel quale però molti si sono riconosciuti e altri ancora si riconoscono. In me, viandante smarrito ma tenace nella ricerca, e infine viaggiatore deciso ad imboccare la via del coraggio e ad incamminarmi su strade del tutto nuove e perciò sconosciute, alcuni mi dicono di aver trovato la forza di affrontare le sfide alle quali periodicamente ci provoca la vita.
Ma un passaggio, finora segreto, mette in comunicazione gli anni della luminosa e ottimistica esistenza e quella degli interrogativi (alla prima dolorosamente legata) con il tempo del raggiunto o preteso nuovo equilibrio.
Quel passaggio è come un corridoio in penombra, che raffigura il periodo – breve, tutto sommato, ma risolutivo – che percorsi a quarant’anni, sfidando me medesimo e la vita e le nuove esperienze e le nuove convinzioni e l’accettazione di un modo di interpretare quella misteriosa realtà che insieme a me era tutto quanto mi circondava, chiedendomi tra clownesco e istrionesco: dov’è andato Dio? dove si nasconde Dio?, fingendomi però spavaldo e sicuro delle nuove conquiste, intanto che il cuore celebrava il funerale del precedente me stesso.
Di quei pochi audaci e arroganti anni, si parla in queste pagine. Audaci, arroganti e benedetti anni, che stanno tra il Sessantotto e i primi anni Settanta. Anni nei quali il piccolo uomo che io sono ha alzato la testa e ha detto: Non sarà forse Dio che lo vuole? Non sarà proprio Lui che mi ha messo nell’anima spaventata lo stimolo a ritrovare il senso della mia libertà e della mia dignità? Mai, infatti, il piccolo uomo che io sono ha pensato disperato: Dio è morto, ma solo, magari pieno di angoscia: Dio si è nascosto. Il suo occultarsi (pensavo) è stato un atto generoso e compiacente, un gesto paterno e provvidenziale che suggeriva quest’invito: Dài, cerca te stesso. Quando ti sarai trovato avrai ritrovato anche me.
Anche se non esenti da errori e da peccati, benedetti quegli anni, dunque. Eccoli, sono in queste pagine.
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