I botti di Capodanno

4,99

Formato: Epub, Kindle

Autore: Michele Zoppardo

Note sull’autore

COD: ISBN: 978-88-5539-266-2 Categoria: Tag:

Descrizione

Una notte di Capodanno con i botti per il commissario Sanfilippo. Prima una rapina, nel corso della quale viene ucciso un poliziotto, poi l’omicidio di un giovane pregiudicato tossicodipendente, strangolato e dato alle fiamme in un boschetto, infine una sparatoria nell’appartamento di un condominio, all’esito della quale un uomo rimarrà ucciso e l’ignoto rivale gravemente ferito. Si tratta di eventi indipendenti l’uno dall’altro o c’è un nesso tra di essi, come suppone il sostituto procuratore che coordina le indagini? Mentre l’omicidio del poliziotto coinvolgerà emotivamente il commissario che attraverserà un momento critico, assalito dai sensi di colpi giacché se ne sentirà responsabile, sarà il terzo caso che lo impegnerà maggiormente dal punto di vista investigativo. Sanfilippo, infatti, dovrà risolvere i dubbi che si celano dietro quell’omicidio. Chi ha ucciso quell’uomo, con un colpo di pistola al petto e un altro a bruciapelo in fronte, e perché? Come mai il cadavere è stato trovato in una posizione diversa da quella che la logica farebbe supporre? Perché, quando gli si è portato davanti per finirlo, il rivale, benché ferito, non ha lasciato tracce di sangue? E perché ha pulito la vecchia pistola di cui si è servito, lasciandola sul luogo del delitto, anziché portarla con sé? Saranno le felici intuizioni del maresciallo Giannuzzi, le visioni particolari dell’investigatore privato Tony Valente e un ragazzo gobbo ad aiutare il commissario nella ricerca della verità. Per arrivare a essa, Sanfilippo dovrà risolvere un conflitto morale: trasgredire o no i suoi principi riguardo all’osservanza della Legge?

INCIPIT

Il periodo natalizio è una festa di luci e di colori, di suoni e di sapori, di attese e buoni sentimenti. E la fame, le malattie, le miserie quotidiane, le pene dell’anima? Accantonate! Sempre che… non ti tocchino personalmente.

 

 

Castelnormanno (Sicilia occidentale) anni ’70

 

31 dicembre – mattina

 

Era il giorno di San Silvestro e si respirava aria di festa, anche se velata da un senso di malinconia che nasceva dalla consapevolezza che il periodo festivo volgeva al termine e presto le luci si sarebbero spente, gli addobbi sarebbero stati riposti, i bimbi sarebbero tornati a scuola e il grigiore del tran tran quotidiano avrebbe soppiantato l’allegria e i colori del Natale.

Il risveglio di Tony Valente, quella mattina, non avrebbe potuto essere peggiore. Si sentiva stordito come dopo aver ricevuto una mazzata tra capo e collo, gli pulsavano le tempie, le orecchie fischiavano come un treno impazzito e aveva il fiele in bocca. Gli ci volle un po’ per realizzare qual era la causa di quel malessere. Dopo tanto tempo, aveva sognato Enrico e ogni volta che l’aveva fatto – che fosse una coincidenza oppure no – era accaduta una disgrazia.

Enrico era un compagno di classe, al quale Tony era particolarmente affezionato.

Fragile come un bicchiere di cristallo, capelli castano chiaro, occhi intelligenti e tristi, gentile di pensiero e di espressione, con movenze effeminate, Enrico era il bersaglio preferito degli scherzi pesanti dei suoi compagni della quarta ginnasiale, che lo avevano bollato come “frocio” e non gli davano pace con le loro battute sguaiate del tipo “Che ti prepara oggi mammina a pranzo? Finocchi?” Enrico ci soffriva, ma non si ribellava. A dire la verità, erano solo quattro o cinque a orchestrare l’opera di vessazione nei suoi confronti, i “duri” della classe, quelli che già fumavano, avevano la ragazza e non avevano paura di fare a botte nemmeno con i più grandi. Gli altri li seguivano come pecore, per paura di essere esclusi dal branco o, peggio, di diventare loro le vittime. A Nino Valente Enrico piaceva, ma neanche lui aveva il coraggio né la forza per ergersi a suo paladino. Andava, però, a trovarlo a casa di nascosto, e allora i due ragazzi parlavano a lungo.

«Ma perché non ti ribelli?» chiedeva Nino.

«E come? Col fisico che ho, se mi danno uno schiaffo, mi ci vogliono quaranta giorni per guarire.»

«Allora parlane con qualche professore, col preside, o fai intervenire i tuoi.»

«Sarebbe peggio. Se quelli dovessero prendere qualche rimprovero o qualche punizione per colpa mia, allora sì che non farei più vita. Queste cose, anche se portano qualche risultato nell’immediato, inaspriscono gli animi ancor di più e, alla fine, si rivelano controproducenti.»

«Ma allora cerca di cambiare, di essere… come ti posso dire… più maschio; che ne so, mettiti a fumare, fatti una ragazza, muoviti meno quando cammini.»

«E cosa credi, che non ci abbia provato? Il fatto è che non ci riesco. Io sono fatto così; perché devo cambiare il mio modo di essere per quei quattro stronzi? Quanto alla ragazza, ce n’è una che mi piace perché è educata e gentile. Vorrei chiederle di fingere di essere la mia ragazza, ma ho paura.»

«Ma paura di che; di un rifiuto?»

«No; non del rifiuto. Ho paura per lei; ho paura che possa essere etichettata come la ragazza del “finocchio” e che possa subire la mia stessa sorte.»

«Hai pensato di cambiare scuola?»

«E che cambierebbe? Troverei altri come loro, se non peggio, e ricomincerebbe tutto daccapo.»

«Ma allora cosa intendi fare, continuare a subire?»

«E che altra scelta ho? Vado avanti così fino a che ce la faccio. D’altronde non me la posso neanche prendere con loro più di tanto; evidentemente sono io che sono sbagliato.»

«Questo non lo devi dire. Ognuno è fatto com’è fatto e nessuno ha il diritto di metterlo in croce per questo.»

Un giorno che, all’uscita da scuola, i soliti compagni avevano pensato bene di divertirsi un po’ alle spalle di Enrico, seguendolo mentre andava verso casa e imitando in maniera oscena il suo modo di camminare, uno di loro disse: «Secondo me, quello non ha neanche l’uccello.»

«Questo lo possiamo verificare facilmente» affermò un altro.

Di sicuro, dovettero concordare un qualche piano scellerato e il giorno dopo, durante la ricreazione, attirarono Enrico nel bagno, gli tapparono la bocca, lo denudarono, lo palparono e forse lo stuprarono; ma questo non fu mai dimostrato.

Enrico tornò in classe stravolto, barcollando, scarmigliato, bianco come un morto, con gli occhi vitrei e quando la professoressa, preoccupata, gli chiese se si sentisse male, non riuscì a pronunciare parola e cadde a terra svenuto. Lo accompagnarono a casa ma Enrico non raccontò nulla; disse soltanto che non si sentiva bene.

Quella stessa notte, mentre dormiva, Nino si sentì chiamare da una voce proveniente dal buio fitto che regnava in fondo alla stanza. Scrutò l’oscurità, cercando di capire a chi appartenesse quella voce che aveva un che di familiare. Poi la vide apparire: una macchia bianca su fondo scuro che procedeva lentamente, prendendo forma umana e diventando infine riconoscibile. Era Enrico che avanzava trascinandosi dietro una fune.

«Enrico, ma che fai con questa corda? Dove la stai portando?»

Enrico non rispose ma lo guardò con un dolore infinito negli occhi; poi scomparve.

Tutto tacque per qualche secondo. Di nuovo buio fitto; poi ancora la voce di Enrico che lo chiamava.

«Enrico, ma che c’è? Perché mi chiami e non mi dici niente?»

All’improvviso, una luce pallida illuminò la scena e Nino vide il compagno penzolare da una corda che scendeva dal soffitto.

Nino si svegliò di soprassalto; balzò giù dal letto e, agitatissimo, corse in camera dei genitori, decidendo di svegliare la madre.

«Ma’ svegliati, presto! Per favore ma’, svegliati!»

«Ninuzzo, ma che è successo? Che ti senti male?»

«No; io sto bene. Ma’, bisogna telefonare subito a casa di Enrico.»

«Ninuzzo, ma che dici? Ma che scanciasti la notte per giorno? Mezzanotte passata è. Che è l’ora di mettersi a telefonare a casa della gente?»

«Ma’, alzati, per favore; lo devi fare. Enrico è in pericolo. Forse facciamo in tempo.»

«Nino ma che dici? In tempo per cosa?»

«Ma’, ho visto Enrico; impiccato.»

«Bedda Matri santissima! Ma sicuro sei? Non può essere che è stato un sogno?»

«No, ma’; non era un sogno. Enrico è venuto a trovarmi.»

«Ma se è venuto a trovarti e l’hai visto impiccato, allora vuol dire che è già morto.»

«Forse, ma forse no; cioè, può essere che sta morendo ma non è ancora morto e allora siamo in tempo a salvarlo. Mamma, basta perdere tempo; telefona!»

«Telefono, telefono; stai tranquillo. Ma che dico?»

«Oggi a scuola Enrico si è sentito male. Chiedi come sta.»

«Ninuzzo, ma che debbono pensare? Che non ci sto con la testa! Uno che aspetta quest’ora di notte per informarsi come sta il figlio?»

«Ma’, chiedi quello che vuoi, basta che telefoni!»

La signora Angelina si alzò e, pur tra mille perplessità, compose il numero telefonico che tanto premeva a Nino. Attese un po’ prima di ricevere risposta. Finalmente, una voce di donna: la mamma di Enrico. La signora Angelina ne fu sollevata; se avesse risposto il padre, si sarebbe trovata in maggiore imbarazzo.

«Signora, la mamma di Nino sono. Mi scusi se disturbo a quest’ora ma, siccome oggi a scuola Enrico si è sentito male… Lei lo sa, mio figlio Nino è un ragazzo sensibile e a Enrico ci vuole bene… insomma, è preoccupato e non riesce a dormire; mi ha messo in croce per farmi fare questa telefonata e accertarmi sulle condizioni di suo figlio.»

Fatto questo discorso, la signora Angelina si sentì maledettamente stupida; ma quale scusa migliore avrebbe potuto trovare per giustificare quella follia notturna?

Ci fu qualche istante di silenzio; evidentemente l’interlocutrice rifletteva su quella strana situazione.

«Nino è gentile a preoccuparsi per Enrico. Oggi, quando me l’hanno portato a casa, mio figlio pareva un morto. Ci siamo presi una paura terribile ma ora sta meglio; dorme.»

«Signora, mi deve scusare se ce lo chiedo, ma è sicura che sta dormendo?»

«Certo; ma perché me lo chiede?»

«Senta signora, è inutile che ci giriamo intorno; ce lo dico papale papale. Nino si fece un brutto sogno su suo figlio. Non è che può controllare se Enrico dorme veramente? Mi faccia la cortesia… per fare stare tranquillo pure a Ninuzzo.»

«Signora, mi sta facendo preoccupare. Aspetti un minuto che vado a controllare in camera sua.»

Qualche istante dopo, la signora Angelina udì un urlo agghiacciante. Buttò giù la cornetta del telefono e rivolse al figlio uno sguardo dolente. «Non c’è più niente da fare» disse con un filo di voce.

«Ma che c’è? Che è successo? Perché siete alzati a quest’ora? Niente da fare per che cosa?» chiese Michele, il marito che, con tutto quel trambusto, si era finalmente svegliato. La signora Angelina lo mise al corrente di quanto successo negli ultimi minuti. Mentre la moglie parlava, Michele si faceva sempre più pensieroso.

«Mih! Ma ora, come la giustifichiamo sta cosa?» chiese alla fine, preoccupato poiché, all’epoca, i genitori di Nino facevano di tutto per proteggere il figlio dalla curiosità della gente e da chissà cos’altro, qualora si fossero conosciute le sue facoltà particolari.

«Ma quale cosa?»

«Questa che mi hai contato: la telefonata notturna; Ninuzzo che sapeva che Enrico era morto e tutto il resto. Sicuramente i genitori di stu povero picciotto si chiederanno come faceva Nino a saperlo.»

«Michè, ma cu sta grande disgrazia ca ci successe, secondo te, sti poveri cristiani si mettono a pensare com’è e come non è che Nino sapeva.»

«Macari ora no; ma doppo, a mente fredda?»

«E doppo, se se lo chiedono, possiamo dire – come già ci ho detto alla madre – che è stato un sogno. Quante volte succede ca uno si sogna ca qualcuno si trova in pericolo o che è morto e quello veramente si trova in pericolo o è morto; sogno premonitore si chiama.»

«Sì, vero è; però, uno si sogna un parente stretto, no un estraneo.»

«Ma perché c’è una legge ca vieta di sognarsi un estraneo? Basta che uno lo conosce! E poi Enrico non era un estraneo, era un amico di Nino e lui c’era affezionato.»

Mentre i genitori discutevano, Nino era tornato in camera sua, si era disteso sul letto e s’era abbandonato a un pianto inconsolabile, carico di rimorsi e sensi di colpa.

Enrico lasciò una lettera ai genitori, in cui raccontava i lunghi mesi di angherie e umiliazioni, fino a quell’ultima; insopportabile. Fece nomi e cognomi dei suoi aguzzini; chiese perdono ai suoi genitori e concluse con la frase con cui gridava tutto il suo sconforto: “Non ce la faccio più a continuare a vivere così. Ci vuole troppo coraggio e io non ce l’ho.”

Ci fu un processo e, questa volta, Nino non si tirò indietro; testimoniò la verità e, come lui, anche altri compagni. La tragica fine di Enrico aveva risvegliato le coscienze e alimentato il coraggio. Furono accertate le responsabilità di tutti gli accusati ma, poiché erano tutti minorenni, furono condannati al minimo della pena, che non scontarono perché incensurati. La scuola fu meno clemente: un mese di sospensione e cinque in condotta. Anno scolastico perso.

Questo il prezzo che la società fece pagare ai responsabili di aver tormentato un ragazzo che non faceva male a nessuno, fino al punto da indurlo al suicidio, rinunciando ai suoi affetti, ai suoi sogni, alle prospettive che la vita gli offriva.

 

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