Descrizione
L’inspiegabile omicidio di Emilio Pesenti, uno studente torinese, nel chiostro della basilica di Sant’Andrea a Vercelli, turba profondamente la tranquilla cittadina piemontese, ma non sarà l’unico fatto di sangue. Le indagini dell’ispettore Corsini della Polizia di Stato e della sua squadra si focalizzano ben presto sulla famiglia delle due vittime, in particolare sulla madre del Pesenti, che vive a Torino. Incuriositi da un quadro, che evidentemente ritrae la donna e riguardo al quale la Pesenti si mostra piuttosto reticente a fornire spiegazioni, gli inquirenti ricostruiscono i suoi legami con il vercellese, dove in gioventù lei ha lavorato come mondina, in condizioni difficili, ben prima che i Sindacati ottenessero anche per le lavoratrici delle risiere condizioni di lavoro più dignitose. Non sarà facile riuscire a comprendere le dinamiche e le modalità dei delitti, e saranno necessarie la perspicacia e l’ostinata ricerca della verità messe in atto dall’ispettore Corsini e dalla sua squadra per ricostruire le intricate motivazioni alla base di quelli che la stampa locale ha denominato “gli omicidi del Broletto”.
INCIPIT
Si era invaghito completamente di Elisa, una tra le ultime mondine arrivate alla Carnaroli, la più importante risiera del Vercellese. Per Alcide Reginaldi, titolare dell’azienda, erede unico di una dinastia di proprietari terrieri che avevano accumulato un ingente patrimonio con la produzione del riso, Elisa Pascali era diventata un assillo, tanto che non riusciva nemmeno più a concentrarsi sugli affari, se almeno non la vedeva anche solo per un momento. Si avventurava sui campi, fingendo di controllare il buon andamento della monda, e non le staccava mai gli occhi di dosso.
Lei, appena diciottenne, con una lunga treccia nera che spesso raccoglieva dietro la nuca come fosse una corona, rendendola irresistibile, era arrivata a Vercelli da sola, con l’ultima compagnia di stagionali provenienti dal ferrarese, che rinnovavano il contratto da anni, ormai senza soluzione di continuità. Si era accorta delle attenzioni che il padrone le rivolgeva, e non faceva mistero di sentirsi adulata dal suo corteggiamento sempre più intraprendente. Le compagne di lavoro, tra le quali un buon numero di compaesane, in dialetto, non si facevano scrupolo di incoraggiarla. “E dai!” le dicevano. “È un bell’uomo! Ma attenta! Non farti inguaiare!”
Alla fine della manfrina Elisa si era persuasa e aveva cominciato a corrispondere gli sguardi del padrone, sfoderando sorrisi molto promettenti, che non lasciavano spazio ai dubbi. Così lui aveva perso del tutto la testa.
Una sera di inizio maggio, al termine di una giornata molto calda che aveva letteralmente sfibrato le mondine, Reginaldi l’aveva aspettata sul piazzale antistante gli spogliatoi e l’aveva chiamata.
«L’aspetto nel mio ufficio, signorina!» le aveva detto, mostrandosi accigliato per dissimulare il suo stato d’animo di fronte alla compagnia delle donne sghignazzanti, che aveva colto perfettamente le reali intenzioni del Reginaldi.
«È successo qualcosa?»
Lui era andato in confusione, non essendosi preparato alla benché prevedibile domanda, e aveva risposto la prima cosa che gli era venuta in mente.
«No! Niente! Non ancora! Spero di sì!» aveva balbettato, poi aveva rotto gli indugi, quasi bisbigliando. «Volevo solo parlarle di una questione privata!»
Lei aveva compreso le ragioni, confermando con un sorriso rassicurante.
Quando era entrata nell’ufficio di Alcide Reginaldi, non c’era stato bisogno di dire nulla. Gli si era concessa felice, pensando di aver incontrato l’uomo del destino, anche se poi non era andata proprio come lei sperava!
Da quella sera si erano visti tutte le volte che l’uomo era preso dalla fregola, e non era mai capitato che Elisa riuscisse a incontrarlo per una passeggiata, alla luce del sole. Aveva pensato di proporglielo, ma tutte le volte l’orgoglio le suggeriva di aspettare che fosse lui a prendere l’iniziativa. L’occasione era venuta quando le aveva chiesto di posare con indosso solo una sottana molto aderente per un suo dipinto che, una volta concluso, le aveva regalato.
Alla fine di giugno, quando il lavoro nella risaia era giunto al termine, Elisa si era accorta di essere incinta e lo aveva detto ad Alcide, pietrificandolo. Lui aveva dubitato della propria responsabilità, adombrando pesanti sospetti su una diversa possibile paternità.
«Chissà quanti giovani ti hanno corteggiata, signorina!» l’aveva apostrofata, posandole una mano sulla spalla e accompagnandola verso la porta dell’ufficio. «Mi spiace per te, ma il lavoro è finito e io non posso più tenerti. E ti consiglio, da amico, non da padrone come mi chiamate voi: vedi di risolvere il tuo problemino!»
Si era sentita morire. Le era cascato il mondo addosso. Credeva di aver incontrato l’amore, invece aveva solo rimediato un’umiliazione. Elisa l’aveva odiato e se n’era andata, senza voltarsi, giurando a sé stessa che avrebbe partorito quel figlio, con la speranza che, un giorno, lui la riscattasse.
Abbandonata dalle compagne di lavoro, che erano ritornate nei propri paesi di origine, e diseredata dalla famiglia, era rimasta a Vercelli portando a termine la gravidanza. Aveva sbarcato il lunario con piccoli lavoretti domestici, risiedendo in una pensione grazie alla benevolenza della proprietaria, che l’aveva accolta come fosse una figlia.
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