Descrizione
Cinque ragazzi, residenti in anonimi e sonnolenti paesini delle colline astigiane, vedranno le loro vite sfiorate da eventi sempre più funesti, fino a diventarne parte loro stessi, scoprendo, forse senza nemmeno accorgersene, che il male non può che generare altro male e che tutto quel che accade non sempre è dettato da una personale volontà, ma accade semplicemente perché deve accadere, perché, al di là delle scelte soggettive, ci sono delle forze che guidano gli avvenimenti secondo uno schema prestabilito di ampio respiro, che porterà le loro esistenze negli anni 80-90 a intrecciarsi con vicissitudini legate agli anni della seconda guerra mondiale e alle vite di persone solo all’apparenza completamente slegate dalle loro. Ogni azione, per quanto piccola o insignificante possa apparire, ne scatena altre, talora quasi impercettibili talora dirompenti.
Esiste un filo conduttore che regola il trascorrere di ogni vita, un filo che si srotola da una matassa che non conosce limiti spaziali e temporali, un filo sottile, quasi invisibile, ma incredibilmente resistente, indistruttibile, un filo che nel suo svolgersi avvolgerà intorno a sé differenti esistenze trascinandole inesorabilmente verso un unico punto di confluenza, pur lasciando loro l’illusione di poter disporre pienamente delle proprie decisioni, un filo che avvolgerà allo stesso modo gioia e dolore, vita e morte, violenza e amore, legandoli insieme indissolubilmente.
Un filo che, al di là dei mondi concreti e reali noti a tutti, lambirà sfere meno considerabili dalle menti più razionali, come quelle che sembrano donare una volontà malvagia a un borgo abbandonato e al bosco che lo circonda o come quelle che chiamano in gioco la presenza delle masche o che sembrano suggerire un gatto albino come un’occulta presenza latrice di sventura.
Non tutto quel che accade è comprensibile.
Non tutto quel che accade è accettabile.
Ma nulla, nulla accade per caso.
INCIPIT
Non puoi scorgere l’alba
Senza aver prima percorso i sentieri della notte
(Khalil Gibran)
CANDELINA
1988
La decappottabile fucsia era immobile, addossata al palo di legno contro cui aveva finito la sua corsa. La bella, bellissima ragazza bionda giaceva inerme nell’abitacolo, le mani ancora sul volante, lo sguardo fisso, i lunghi capelli sciolti sul succinto vestito rosa che aveva scelto per farsi quell’ultimo giro. Solo che lei non lo sapeva che sarebbe stato l’ultimo, non poteva saperlo. Da sotto l’auto usciva un rivolo che andava allungandosi sul terreno seguendone la lieve pendenza, come se il veicolo stesse orinando. E via via aumentava la sua lunghezza e la sua portata, fino a raggiungere il ragazzino che assisteva compiaciuto alla scena. Stava acquattato dietro un grosso cespuglio di rose e vedeva tutto distintamente. Aveva visto tutto e non c’era nessun altro intorno. Il liquido lo raggiunse nel punto preciso dove stava, come una rabdomanzia alla rovescia, ma non era acqua. Benzina. Il suo odore pungente e inebriante, irresistibile aroma postmoderno, gli solleticò le narici provocandogli quel familiare senso di euforia e di eccitazione. Si mise una mano in tasca e mosse le dita fino trovarlo, in mezzo a monetine e caramelle, fino a sentirne la forma quasi cilindrica, ellittica a esser precisi. Lo estrasse, un accendino Bic arancione, lo avvicinò al rivolo e girò la rotellina metallica. Prese fuoco all’istante e le fiamme ripercorsero a ritroso il tracciato fino alla macchina avvolgendola in un attimo e raggiunsero la fanciulla avviluppandola interamente e divorandone fameliche i capelli; il vestito evaporò pochi secondi dopo e poi fu la carne. Prima prese fuoco, poi iniziò a sciogliersi lentamente, a cadere a gocce infuocate, le braccia le gambe il volto si deformarono come la cera di una candela. La ragazza non emise un gemito, non si mosse, non gridò, andò via via liquefacendosi.
“Che cazzo stai facendo??? Io ti ammazzooooo, razza di cretino!” queste erano urla vere, non di dolore, ma di furore e in quel momento erano indice di grave pericolo. “Rolando, sei un deficiente, è inutile che scappi tanto prima o poi ti piglio e ti gonfio” gridava Rebecca.
Ma Rolando, abituato alle fughe dalla sua imponente sorellona, era già al riparo sulla sophora, appollaiato su un robusto ramo a tre metri dal suolo.
“Tanto quassù non ci arrivi, culona che non sei altro” disse, facendo seguire una pernacchia sputacchiosa. “E poi cosa rompi, ne hai a decine di quelle stupide Barbie!”
“Quale hai preso? Com’era vestita? Dimmelo!! Ti strozzo!”
“Era vestita di rosa, il vestito brillava e aveva una borsetta verde con un cuore. Perché, cosa ti cambia?”
“Razza di demente! Era Barbie shopping, me l’aveva regalata papà, era un ricordo! Sei solo uno stupido ragazzino, ecco cosa sei!” aveva gli occhi pieni di lacrime nervose.
“Se è per questo te le ha regalate tutte papà, o quasi. Hai le altre, Barbie shopping è morta in un incidente d’auto, capita nella vita, sai? E poi va bene così, tanto anche papà è morto.”
“Smettila! Stupido stupido stupido!! Non è morto, è solo andato via, tornerà.”
“Smettila tu, scema, è la stessa cosa, se ne è andato e ci ha lasciati qui, è come se fosse morto! Comunque tu pensala come vuoi, illuditi pure.”
“Spero che caschi da quel ramo e ti spacchi la testa!”
“Certo, se cadessi tu, faresti una voragine! O forse rimbalzeresti, palla come sei. Anzi, si romperebbe prima il ramo mentre cerchi di salire. Perché non sali a buttarmi giù? Dai, vieni.”
“Stronzo!” sentenziò Rebecca, quindi raccolse una manciata di ghiaia e la scagliò verso il fratello, colpendolo solo di striscio, si voltò e se ne andò.
“Ecco brava, vattene e metti al sicuro le tue bamboline, potrebbero bruciare all’inferno!”
Senza voltarsi lei alzò la mano destra mostrando il dito medio e sparendo dalla sua vista.
Era estate, faceva caldo, un caldo umido e afoso; tra le fronde della sophora, in maglietta e calzoncini, si stava divinamente bene. Tutto a un tratto avvertì un tonfo leggerissimo alle sue spalle sul ramo su cui poggiava e qualcosa gli si strusciò contro il polpaccio. Era un qualcosa di caldo e peloso. “Ciao Buio, eccoti qui micione, dove sei stato negli ultimi giorni?” Il gatto proseguì fino a pararglisi di fronte, strofinò il suo naso umido contro quello del ragazzino e iniziò a far le fusa. Era completamente bianco, il naso rosa pallido e gli occhi quasi trasparenti. Era un raro caso di felino albino. Il suo manto era candido come le neve, sempre, le rare volte in cui si sporcava pochi minuti dopo era di nuovo bianco brillante, come se si fosse fatto un bagno nella candeggina. Pesava quasi dieci chili, una stazza di tutto rispetto, considerato il fatto che fosse un maschio non castrato. E dire che ci avevano provato a fargli recidere i sacri gioielli, ma ogni volta che era atteso il veterinario lui spariva con sapiente anticipo e in nessun caso eran riusciti a metterlo in gabbia, vuoi per fughe rocambolesche accompagnate da graffi e morsi, vuoi per la sua assenza fisica, era come se lo sapesse. Dopo una decina di tentativi ci avevano rinunciato, in fin dei conti poteva anche andar bene così. Era il gatto alfa di Primiglio, o almeno tentava di esserlo, come testimoniavano le molte cicatrici e le punte delle orecchie frastagliate da troppi morsi. Era un gatto impegnato a controllare il territorio e nelle sue lunghe assenze pattugliava e controllava che tutto fosse a posto e che, soprattutto, gli altri gatti stessero al posto loro.
“Ho bruciato una Barbie a quella scema di mia sorella, sai?” gli disse Rolando. Gli occhi del gatto sembrarono cambiare espressione, allungò una zampa poggiandogliela sul dorso della mano, dopodiché estrasse repentinamente le unghie, conficcandogliele dentro. “Ahia! Ma che ti prende? Cos’è, ho detto qualcosa che non va?” Le unghie si ritrassero. Sembrava un sì. Il ragazzino rimase un attimo pensieroso, un po’ incredulo, non era certo la prima volta che aveva la sensazione che il gatto lo capisse e volesse parlargli a sua volta. Provò a formulare un’altra domanda: “Ho fatto male a bruciare la bambola?” niente unghie. Era un sì o un no? Pensò, se la cosa è sbagliata mi graffia, altrimenti no. È una follia, dai! Ma vabbè, vediamo “Ho fatto male a salire sull’albero?” Niente unghie. “È qualcosa che ho fatto o detto a quella stupida?” Unghiata. “Ahi! Cos’è, perché ho detto che è scema?” Ancora unghie.
“Aspetta gatto, aspetta. Mi vuoi dire di non insultare mia sorella?” Unghie rimosse. “Di aver rispetto di lei?” Niente unghie. “Ma tu che ne sai di cosa vuol dire avere una sorella così rompipalle?” Rimasero a guardarsi qualche secondo. “È pur sempre mia sorella ed è l’unica che ho. Questo vuoi dire?” Mosse la zampa come per accarezzargli la mano, o così parve a Rolando. Emise un miagolio e saltò agilmente giù dal ramo zampettando rapidamente verso casa, sicuramente a cercare cibo, lasciandolo pensieroso su quanto appena accaduto.
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