Descrizione
Sicilia anni ’70.
Quanti interrogativi, in questo nuovo caso, per il Commissario Sanfilippo! Chi e perché ha ucciso il dottor Calabrese, conosciuto e stimato da tutti? Chi e perché, a distanza di pochi giorni, ha massacrato Giacoma Favaloro, una donna di ottanta anni, scorbutica, litigiosa, mal sopportata dai compaesani, nessuno dei quali, però, aveva motivo di ucciderla? Perché i coniugi Calacibetta si sono tolti la vita nel garage della propria abitazione, adiacente a quella in cui abitava l’anziana donna? C’è un nesso tra questi eventi, accaduti a Borghetto, una frazione del comune immaginario di Castelnormanno, finora “tranquilla come s’immagina che debba essere un cimitero di notte”? Che ruolo ha nella vicenda Luca Meozzi, un vagabondo psicolabile che asserisce di non essere responsabile delle sue azioni perché una non meglio specificata “lei” controllerebbe la sua mente e gli ordinerebbe di compiere determinati atti, come colpire a martellate le auto in sosta? Sanfilippo saprà dipanare l’intricata matassa e arrivare a scoprirne il bandolo, grazie al suo acume investigativo, a fortunate coincidenze e all’aiuto delle percezioni extrasensoriali dell’investigatore privato Tony Valente.
Capitolo I – “Za Giacoma chiovu torto”
Che cos’è il Male? È solo il nome con il quale indichiamo tutto ciò che è contrario alle leggi di Dio, degli uomini e all’umana pietà o è quell’entità di cui parla la Bibbia, quell’angelo, ribellatosi al Creatore e in conflitto con Lui, che domina il mondo con le sue schiere di dèmoni e lo governerà fino alla battaglia finale che si terrà ad Armageddon, con il solo scopo di impossessarsi di quante più anime gli sia possibile? E, se davvero il male è un’entità, può accadere che talvolta riesca a incarnarsi in un essere umano e si serva di lui per conseguire i suoi fini?
Attilio arrivò sul posto trafelato, ma non sapeva perché. A dire la verità, non sapeva nemmeno in quale posto fosse né come c’era arrivato. Ricordava solo che lì aveva un appuntamento importante, un colloquio di lavoro a cui teneva moltissimo. Non che avesse bisogno di guadagnare; la sua pensione gli consentiva di vivere decentemente. Desiderava, però, un’occupazione che lo facesse sentire ancora utile, che lo aiutasse a scrollarsi di dosso quell’apatia che lo aveva pervaso, che gli desse modo di riallacciare le relazioni sociali che aveva bruscamente interrotto da che lo avevano messo in “quiescenza”, come si diceva in linguaggio burocratico. Quando rifletteva su quell’espressione, si avviliva, perché il termine “quiescenza”, per una strana associazione d’idee, gli richiamava inevitabilmente alla memoria “l’eterno riposo”, altra espressione che odiava e che ora più che mai, a sessantacinque anni suonati, gli faceva paura.
Per questo, quando aveva letto quell’annuncio su un quotidiano, si era affrettato a telefonare, per fissare un appuntamento per quel colloquio di selezione. Che lavoro fosse non lo ricordava più ma non aveva importanza; qualunque cosa andava bene, purché lo prendessero.
Si aspettava di trovare una ressa di persone, soprattutto giovani, in mezzo ai quali si sarebbe sicuramente sentito a disagio, perché era come rubare il pane – lui che aveva la pancia piena – a chi era affamato. Per fortuna, non c’era nessuno, ma il sollievo durò solo un attimo perché, subito dopo, realizzò che probabilmente quell’insolita tranquillità era dovuta al fatto che era arrivato troppo tardi e le selezioni erano già state fatte. In effetti, la porta a vetri da cui si accedeva agli uffici era chiusa. Provò a spingerla e si aprì. “Permesso?” chiese timidamente, rimproverandosi tacitamente per il ritardo che di sicuro aveva compromesso le sue possibilità per quel lavoro. Ma perché aveva fatto tardi? Perché aveva dovuto correre tanto da essere tutto sudato? Cosa gli era accaduto? Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordarsene. “Prego?” chiese la donna affacciatasi da una porta laterale. Attilio ebbe subito l’impressione di averla già conosciuta, ma non sapeva dove. Le spiegò che era venuto per la selezione ma, purtroppo, aveva fatto tardi.
“Troppo tardi però” gli fece osservare la donna, cortesemente. “Mi spiace, ma la selezione è già terminata” aggiunse con un sorriso, quasi a volersi scusare. “Era importante questo lavoro per lei?” chiese poi, vedendo il profondo dispiacere che trapelava dal suo volto.
“Sì” rispose lui, senza saper trovare altre parole, ma guardandola negli occhi e riuscendo a trasmetterle tutta la delusione che provava in quel momento. E intanto, più la guardava, più Attilio era sicuro di averla già incontrata.
“Venga” lo invitò lei, con una delicatezza che gli dette conforto. “Non potrei, ma il colloquio glielo faccio ugualmente.”
La donna era giovane, bionda e profumata. La sua voce era dolce e gli dava un senso di pace, come ormai da tempo non provava più. Gli faceva delle domande e lui rispondeva, ma non avrebbe saputo dire cosa lei gli chiedesse e cosa lui rispondesse. Sentiva la voce di lei che, come una musica ipnotica, lo imprigionava fra le note. Attilio la guardava e sentiva, assurdamente, di esserne innamorato. La donna ricambiava i suoi sguardi e lui, per la prima volta dopo un’eternità, avvertiva che gli organi a ciò deputati stavano producendo a pieno ritmo ormoni sessuali e, nello stesso tempo, si sentiva investire da quelli prodotti dal corpo di lei e ne sentiva l’odore, forte e irresistibile. All’improvviso, capì perché quel volto gli era così familiare. Quella donna era Emma! La sua Emma, da giovane.
Proprio in quel momento, quella voce roca, sgraziata, che odiava più di ogni altra cosa al mondo, lo svegliò.
Quella piccola frazione di un comune della provincia di Palermo, cui darò il nome di fantasia di Borghetto, adagiata su dolci colline, verdi di vigne e di ulivi, era tranquilla come si immagina che debba essere un cimitero di notte. Posta a tredici chilometri dal paese, che chiamerò Castelnormanno, sede del municipio e del Commissariato di Pubblica Sicurezza, lì finiva il mondo. Vi arrivava un’unica strada, stretta, tutta curve e saliscendi, che proveniva da Castelnormanno e che, arrivata là, non portava più da nessuna parte. Malgrado fosse piccolo, in quel borgo c’era tutto ciò che necessitava perché la gente non fosse costretta ad andare in paese. C’erano un negozio di alimentari, un panificio, una macelleria, un negozio di agraria e ferramenta e un bar. Non mancavano un ambulatorio medico, una farmacia, una pieve del ’600 e un campo di calcio, a disposizione del “Club Amatori Borghetto”. Gli abitanti di quella frazione, perlopiù anziani e contadini, si conoscevano tutti e, per la maggior parte, erano imparentati tra loro. Chi usciva di casa, di solito, lasciava la chiave nella toppa perché lì nessuno aveva mai rubato niente. L’auto della Polizia ci veniva una volta a settimana, per puro scrupolo di servizio e perché la ‘za’ Maruzza, titolare dell’unico negozio di generi alimentari, ai poliziotti i panini glieli imbottiva con abbondante prosciutto crudo, di quello buono, e col primosale dello ‘zu’ Tanu, il pastore, che si squagliava in bocca, rilasciando tutto il sapore del latte appena munto. Inoltre, non faceva mai mancare, come omaggio della ditta, un bicchiere del vino frizzantino di produzione propria, che andava giù liscio come l’acqua.
Insomma, quella località era un’oasi di pace. Però, siccome la perfezione non può essere di questa terra, anche quell’angolo di paradiso un problema l’aveva e Attilio Calacibetta, senza saperlo, ci si era tuffato dentro con scarpe e camicia. Il problema aveva nome e cognome. Si chiamava Giacoma Lo Cascio, nota come “za Giacoma chiovu torto”. E l’appellativo “chiodo torto” faceva riferimento tanto alla struttura fisica quanto e soprattutto alla sua indole maligna. Piccola, ossuta, la pelle del viso incartapecorita, curva come un amo, sempre vestita di nero e cattiva come una grandinata di settembre prima della vendemmia.
“La so povera mamma diceva sempre ca la partorì l’inferno” asserivano in paese.
La ‘za’ Giacoma non era sempre stata ‘za’. Quell’appellativo era una specie di titolo onorifico che spettava, in segno di rispetto, a chi aveva raggiunto una certa età. Però, “chiovu tortu” lo era stata sempre, sin da bambina. Ne sapevano qualcosa i suoi genitori ai quali Mina, così era detta da piccola, aveva fatto vedere i sorci verdi, tanto che la madre esclamava spesso: “Ma da quali pirtusu di culu di diavolo nisciu sta picciridda?” Prepotente, scontrosa e manesca, alle elementari – le uniche scuole che aveva frequentato fino alla quarta classe prima di andare a lavorare nei campi – aveva vessato e picchiato la maggior parte delle sue compagne, che avevano finito per avere terrore di lei. I genitori avevano cercato di raddrizzarlo quel chiodo torto; il padre a suon di cinghiate e la madre a forza di scapaccioni, ma più ci picchiavano su, più quel chiodo si torceva. Mina, da parte sua, ogni cinghiata e ogni scapaccione se l’era legato al dito e aveva finito per nutrire un odio feroce per coloro che l’avevano generata. Una volta che, a giusta ragione, le aveva prese dal padre – poteva avere dodici o tredici anni – si era impossessata di nascosto della coppola cui l’uomo teneva più di ogni altra cosa. In un campo, le aveva dato fuoco e, mentre il berretto bruciava, Mina ballava e cantava come invasata: “Abbrucia, abbrucia coppulina nelle fiamme dillu ’nfernu. Ora tocca a tia ma prestu toccherà a iddu”. Quel “presto toccherà a lui”, ovviamente era rivolto a suo padre e Mina non scherzava né minacciava invano.
Tuttavia, non poté mettere in atto il suo proposito perché il padre, nel giro di qualche mese, colto da un infarto, morì.
Mina non aveva mai voluto bene a nessuno e nessuno aveva mai voluto bene a lei. Amava solo la terra che lavorava giorno dopo giorno perché, in cambio del suo sudore, le donava frutti che poi si tramutavano in denaro, che lei depositava regolarmente all’ufficio postale e che le sarebbe servito per comprare altra terra. A trentanove anni, Giacoma – ormai era troppo grande per essere ancora Mina – era già curva e zitella.
“Mancu i cani ne vogliono di sta fimmina!” diceva la gente. I cani no, ma Pippuzzu Favaloro, giovanotto invecchiato di quarantotto anni, contadino, soggiogato da chissà quale malia, ebbe il coraggio di chiederla in moglie. I parenti fecero di tutto per dissuaderlo.
“Pippuzzu, ma a taliasti bene?” gli chiedevano.
“A taliavu, a taliavu” rispondeva lui. “I biddizzi non durano tutto il tempo. È una fimmina onesta e travagghiutura. Avi terre e vigne. E poi, a mia chi mi pigghia? Haiu quasi cinquant’anni. Beddu ’un sugnu mancu io e mancu riccu sugnu.”
“Ma avi l’animu tintu!” gli dicevano ancora.
“Cattiva non è” rispondeva lui. “È ca bisogna pigghiarla per il verso giusto.”
Evidentemente, il verso giusto Pippuzzo non riuscì a trovarlo perché, neanche quattro anni dopo, morì e la convinzione comune era che fosse morto di crepacuore. Di lui, a Giacoma rimasero un figlio, Salvatore, detto Totino, e la fede d’oro massiccio che lei stessa aveva pagato e che non si tolse mai dal dito. No, non in segno d’affetto verso il marito che lei aveva sempre considerato “una cosa inutile”, ma per sventolare quell’anello sotto il naso delle pettegole perché si mangiassero il fegato, pensando che c’era stato un uomo che Giacoma l’aveva voluta e sposata.
Ormai prossima agli ottanta anni, la ‘za’ Giacoma, che godeva di una salute di ferro, costituiva ancora il terrore di quanti non le andassero a genio. Nonostante ciò, suo figlio Totino, ora quarantenne, si ostinava a vivere con la vecchia, malgrado tutti gli consigliassero di prender moglie e scapparsene via. Alto più della media dei Siciliani, bene in carne, pancia abbondante, capelli neri e ricci che cominciavano a diradare, gentile, pacato, scapolo e completamente succube della madre, Totino era considerato da tutti un bonaccione e da alcuni fin troppo. I più lo commiseravano per ciò che aveva dovuto sempre subire e lo lodavano per l’attaccamento alla madre. Le malelingue, invece, asserivano che il giovanotto era sì attaccato ma all’eredità, perché la ‘za’ Giacoma l’aveva sempre minacciato chiaro e tondo di diseredarlo qualora “t’attruvassi qualchi buttanazza e lassasi sula a to matri”. E quando Totino aveva osato replicare che, se avesse trovato una brava ragazza da sposare, avrebbero comunque potuto vivere tutti insieme dato che la casa era abbastanza grande, la madre lo aveva bastonato, urlando: “Non t’arrischiari a purtarimi qualcuna in casa! Assicutu a tia e a idda. Troie dintra a me casa non ne debbono tràsiri”. Così, Totino si era rassegnato a una vita da scapolo, almeno finché Qualcuno avesse deciso che quella donna aveva fatto il suo tempo sulla terra e l’avesse richiamata a sé. Ma gli anni passavano e la ‘za’ Giacoma era salda come una quercia. “Chista campa ducentu anni!” dicevano tutti. “Mancu all’inferno la vogliono!” E sembrava proprio che all’inferno avessero deciso di lasciarla sulla terra perché facesse dannare più anime possibili.