Belle ombre imperfette

12,00

Formato: Libro cartaceo

Autore: Marilena Fonti

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-6690-488-5 Categorie: , Tag:

Descrizione

In situazioni estreme, le donne sono spesso capaci di tirare fuori tutta la loro forza, anche quando si ha l’impressione che sappiano più che fare, o quando sembrano succubi delle circostanze o dei loro compagni.

Il tema della raccolta è proprio quello del riscatto, sovente doloroso, qualche volta liberatorio, da una situazione di disagio, difficoltà o oppressione in cui le donne sono immerse. Non di rado, la liberazione avviene attraverso un atto violento, oppure, all’opposto, attraverso la generosità, perché le donne non sono tutte uguali, sono influenzate dal loro vissuto, dalla loro cultura, dal loro carattere.

Questa raccolta di quattordici racconti brevi accompagna il lettore attraverso uno spaccato del mondo femminile a volte perfino un tantino irritante, ma profondamente vero e attuale.

INCIPIT

ANNIVERSARI

Adriana

Il dodici di ogni mese Adriana mette il suo vestito più bello, adatto alla stagione, si trucca in modo impeccabile, con una perizia riscoperta di recente, e si dà una generosa spruzzata di profumo. La fragranza è sempre quella, mai cambiata da quando il marito, che purtroppo non ha mai brillato per originalità, gliene ha regalata una boccetta per un suo compleanno. Poi, visto che è stata apprezzata, ha pensato bene di replicare per tutti quelli a seguire. Quando l’immagine che le rimanda lo specchio, a figura intera, la soddisfa appieno, esce di casa per salire sulla sua utilitaria parcheggiata, giorno e notte, in qualsiasi condizione climatica, da circa dieci anni, davanti al portone della porzione di bifamiliare in cui abita. L’auto di solito la usa poco, preferisce camminare, alla sua età il moto fa bene, glielo ha detto anche il medico. Tuttavia, ci sono occasioni, come quella del dodici di ogni mese, appunto, in cui non può farne a meno: il tragitto da compiere per recarsi al suo appuntamento è piuttosto lungo e i mezzi pubblici hanno orari impossibili.

Oggi è il dodici giugno: data importante, l’anniversario degli anniversari, per lei irrinunciabile. Si è preparata con più impegno del solito: ha perfino comprato un rossetto nuovo, di un bel colore corallo. Greta, la commessa della sua profumeria di fiducia, le ha detto che quello che usa è troppo chiaro, la spegne. Le ha consigliato di mettere in risalto le labbra, ancora belle e turgide: ha usato quelle parole precise e per lei, che ha ormai superato i cinquanta da un pezzo, è stato più tonificante di un integratore di vitamine anti-age. Ha attraversato una fase della vita in cui si trascurava molto, scivolando, quasi senza accorgersi, nella sciatteria fisica e morale in cui si finisce per dare tutto per scontato, dimenticando di coltivare il proprio tempo con la passione che merita. In quella situazione nulla riusciva a emozionarla, non conosceva stupore, era refrattaria a qualsiasi turbamento. Era un ramo secco, incapace di dare vita e di riceverne. Era piombata in uno stato di apatia irriducibile, resistente a qualsiasi stimolo esterno, che aveva coinciso col trasferimento della seconda dei suoi figli in un’altra città per frequentare l’università. Da quel momento in poi, ogni attimo da lei vissuto era diventato un inutile rincorrersi di frazioni di tempo svuotate di significato, ogni sua azione un gesto meccanico, compiuto col distacco e la regolarità di un automa.

Le pare che siano trascorsi secoli da allora: il senso di desolazione di quei mesi riaffiora una volta l’anno, e la tormenta con fitte dolorose che le ricordano che non deve ricascarci. Il pensiero di quei giorni insiste nel venire a galla con maligna tempestività, con inesorabile precisione; ma lei ha trovato il modo per neutralizzarlo. Un giorno al mese compie il rito che l’aiuta ad affrontare tutti gli altri. E il dodici giugno, da sei anni a questa parte, quel rito assume un significato speciale, poiché ricorre l’evento che, seppure in modo drammatico, l’ha strappata dal torpore in cui era sprofondata: ricordi marchiati a fuoco nella memoria. Ogni conquista comporta sacrifici, quello nessuno può saperlo meglio di lei, perciò è destinata a portarsi dietro per sempre il peso del dolore che la vita le ha scaricato addosso, e che lei non è stata in grado di evitare. Ma ora sa che ne è valsa la pena. Eccome.

Una volta arrivata a destinazione, trovare parcheggio è facile, come sempre a quest’ora: poco prima della chiusura c’è poca gente. Molti dei visitatori vengono la mattina o nel primo pomeriggio, così hanno il resto della giornata per fare altro. Ma lei non ha grandi impegni, e poi le piace, dopo, tornarsene a casa e preparare la cena con più impegno del solito, in attesa che rientri suo marito. Lui arriva, puntuale, alle sette e mezza, tutte le sere: questa sua regolarità è una certezza rassicurante, un muro solido contro cui s’infrangono tutte le paure di Adriana. L’uomo finisce di lavorare all’ufficio del catasto, nella vicina città, alle due del pomeriggio; poi aiuta un collega geometra nel suo studio in paese e lei è contenta che, anche se solo nei ritagli di tempo, lui si dedichi al lavoro per cui ha studiato.

Sente la ghiaia del vialetto scricchiolare sotto i suoi passi: ha messo le scarpe col tacco alto, le più eleganti che ha, e il pietrisco, che si muove sotto i piedi, rende il passo sdrucciolevole e l’andatura malferma. Ma, data l’occasione, non si sarebbe mai sognata di rinunciarvi. Alla fine del vialetto, su cui s’affacciano le cappelle appena costruite, c’è la zona nuova, con le tombe a terra, quelle a pagamento, rifinite in marmo e circondate da un prato naturale, ma curato. Si ferma davanti a un sepolcro in travertino, abbastanza spoglio, eccetto che per un vaso con dei fiori, accanto alla lapide, a fianco della foto. L’immagine a colori è quella di una giovane donna bruna, graziosa, con i capelli lunghi e mossi, gli occhi scuri velati da ciglia folte. È evidente che il soggetto, prima di essere ripresa, si sia truccata con cura. Ha messo anche un velo di rossetto, le labbra appaiono lucide. Adriana ha sempre avuto l’impressione che la foto risalisse a molto tempo prima del decesso della donna, che aveva trentanove anni quando è stata “brutalmente strappata all’affetto dei suoi cari”, come dice la scritta in bronzo sul marmo bianco, sotto il nome, Lorenza Ciardi, e sopra la data della morte, 12 giugno 2010. Ma ormai poco importa, dove è adesso non le servirebbe a molto barare sull’età. Ottavia ha portato un fiore, uno solo, come fa sempre e soltanto in questa occasione: una rosa, una Belle de Crécy, di cui ha un cespuglio in giardino, in piena fioritura in questo periodo. La infila nel vaso e nota, soddisfatta, che il suo colore malva intenso risalta tra il bianco e il giallo delle margherite, che sono già lì. Eccoci qua, cara signora. Ci si rivede, nel rivolgersi col pensiero alla donna le dà del tu, non lo ha mai fatto quando era in vita. Le ha dato del tu in un’unica circostanza, quando ormai era troppo tardi per instaurare qualsiasi tipo di rapporto. Non c’era mai stata grande familiarità tra loro: spesso la domenica, o per qualche ricorrenza, Ottavia andava a comperare dei dolci nella pasticceria di Lorenza, ma senza mai darle, né prendersi, eccessiva confidenza. Da quando la donna s’era separata dal marito, circa cinque anni prima della morte, giravano strane voci sul suo conto. Adriana non s’era mai lasciata coinvolgere, le chiacchiere di paese non le erano mai piaciute, ma aveva comunque mantenuto una distanza di sicurezza.

All’epoca della sua depressione Adriana aveva rinunciato anche alla passeggiata serale col cane: se ne stava a casa davanti alla televisione, che seguiva appena, persa com’era nel garbuglio confuso dei suoi pensieri. L’aveva sostituita suo marito, un po’ controvoglia, ma qualcuno doveva pur farlo. Allora, quando il marito rincasava, lei era pronta per andare a dormire, se non addirittura già a letto. I soliti trenta minuti di passeggiata si erano trasformati in modo graduale, qualche minuto in più ogni volta, in un’ora, poi due, certe sere anche due ore e mezza. A un certo punto aveva provato a farglielo notare, ma lui le aveva risposto, con tono piuttosto risentito, che le serate erano talmente belle che preferiva camminare e godersele, piuttosto che starsene a casa sprofondato in poltrona davanti alla tv. A lei era parso di avvertire una nota di acredine nella sua voce, quasi volesse rinfacciarle qualcosa. Nel muro, dietro il quale si era isolata sola, cominciò ad aprirsi una piccola breccia. Adriana, a ripensarci, non potrebbe dire quando fosse iniziato il cambiamento, ma in quel momento ebbe una specie di fitta, come una scossa elettrica che, acquistando intensità col passare dei giorni, la allarmò a tal punto da tirarla fuori dall’abulia in cui s’era lasciata sprofondare. E iniziò a osservarlo con più attenzione. Notò che non usciva più dalla porta principale, che dava sulla strada, ma da quella sul retro, che s’affacciava sul giardino. E una sera decise di seguirlo, così com’era: in tuta, perché in casa indossava sempre quella, e sempre nera. Solo in piena estate cedeva ai vestiti leggeri, ma controvoglia: non le piaceva rinunciare alla comodità di quell’indumento. Attenta a non farsi notare da lui, lo pedinò fino alla meta, raggiunta dopo venti minuti: lo vide intrufolarsi guardingo in una porta semiaperta, che richiuse dopo esservi entrato, tirandosi dietro il cane. Lei tornò a casa e, come accadeva ormai da qualche tempo, lui arrivò un paio d’ore dopo. La sera successiva fu una replica della precedente: aspettò che suo marito uscisse, indugiò qualche minuto, per non dare nell’occhio, quindi gli si mise alle calcagna fino al momento in cui lo vide scomparire dentro la stessa porta socchiusa. Avuta conferma di quello che stava succedendo, iniziò a riflettere sul da farsi. Perché ormai doveva agire, non poteva più fingere che fosse tutto normale, ignorando quella mina che rischiava di far saltare in aria tutta la sua vita. Di colpo si sentì pervasa da un’energia che non ricordava più di avere. Ed era una sensazione strana, intensa. Perfino piacevole.

Quella sera di giugno di sei anni fa suo marito si era trattenuto in città per una cena con i colleghi, organizzata per salutare il capufficio che andava in pensione. Le parve una buona occasione per affrontare la situazione. Aspettò che facesse buio e non si preoccupò neanche di cambiarsi, uscì così com’era, in tuta, come sempre; salì in macchina e si avviò verso l’edificio in centro, che conosceva così bene. Voleva un chiarimento spassionato, sapeva di non essere stata il massimo come moglie negli ultimi tempi, ma tra donne ci si può capire, rifletteva mentre guidava. Poi l’altra poteva avere chiunque, era sola, autonoma, giovane. Lei no. Se le cose si fossero messe male, l’avrebbe spaventata, era pronta anche a quello, e si era organizzata. Ed era di una calma insolita, quasi innaturale.

Parcheggiò l’auto in un vicolo, non lontano dall’ingresso della pasticceria. Quando arrivò davanti alla porta, la trovò chiusa: certo, non era prevista nessuna visita, quella sera, si sorprese a pensare non senza una punta di sarcasmo. Alzando lo sguardo vide le luci accese nell’appartamento sopra al negozio, dove abitava Lorenza. Suonò il campanello. Dovette aspettare parecchio prima di sentire la voce della donna che, un po’ affannata, chiedeva chi fosse. Glielo comunicò, e aggiunse che doveva parlarle. Attese ancora qualche minuto, poi sentì il rumore della serratura che veniva aperta dall’interno: la donna aveva preferito scendere piuttosto che usare l’apertura automatica, voleva evitarle di salire in casa. E magari anche liquidarla alla svelta. Aveva i capelli bagnati, doveva essere appena uscita dalla doccia: aveva dovuto vestirsi, rifletté Adriana, ecco perché le ci era voluto parecchio a scendere. La fece entrare, con aria un po’ sostenuta, quindi si confrontarono per qualche minuto: Adriana non poté fare a meno di notare le occhiate che l’altra le lanciava, in cui s’alternavano disprezzo e compassione. Intollerabile. Lo sguardo le cadde anche sul bancone del negozio. Accanto all’espositore dei cioccolatini c’era un vaso di vetro, con dentro delle rose: Belle de Crécy. Dal suo giardino, ci avrebbe scommesso. Ecco spiegata l’uscita di suo marito dalla porta sul retro. Si era preparato tutto un discorso sulla famiglia, i valori, la libertà di donna separata e indipendente che l’altra aveva, e che le permetteva di guardare oltre, mentre lei aveva solo il marito e i figli. Era pronta anche a umiliarsi pur di riprendersi tutti gli spazi nella vita del suo compagno di tanti anni. Poi d’un tratto, nel sostenere lo sguardo insolente che l’altra le lanciava, fu travolta da un’ondata di rabbia incontenibile quanto inaspettata, dalla voglia urgente di scalfire quella sicurezza spudorata. Allora tirò fuori dalla borsa il coltello che aveva portato con sé per spaventarla. Quando vide che la luce beffarda negli occhi di Lorenza non si spegneva, anzi, diventava di sfida, le assestò un primo colpo alla cieca, ferendola a un braccio. Il disprezzo e la compassione in quegli occhi si trasformarono in un attimo in sgomento, ma la donna non gridò, disse solo, in un soffio rauco: «Tu sei pazza». E vedere la paura in quello sguardo le diede una forza insospettata: continuò a colpire. Ancora, e poi ancora, del tutto incapace di fermarsi. Anche quando lei era già a terra esanime. Ventidue coltellate, avevano riportato i mezzi d’informazione locali il giorno dopo. Alcune delle quali avevano raggiunto organi vitali. Si cercava un uomo robusto.

Adriana torna a fissare quegli occhi: conservano l’espressione provocante di allora. Del tutto innocua, ormai. Sei anni di interrogatori, indagini a tappeto, e figurati se riescono a capirci qualcosa, riflette compiaciuta. Dilettanti. Ammicca sorridendo al volto nella foto, ora icona di sfrontata quanto inutile arroganza. Dà un’ultima sistemata alla rosa nel vaso, quindi si avvia, col passo incerto dei suoi tacchi alti sul pietrisco del vialetto, verso l’uscita.

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