Descrizione
Un uomo con cui confrontarsi
Una lettrice vorace come me, quasi ingorda deve ammettere a malincuore che ci sono dei libri, bellissimi e animati da un soffio “divino”, che vanno letti lentamente; anzi, talvolta, si torna indietro, per riassaporare, capire, approfondire.
Tutto un andirivieni tra le righe, persino fra le parole, ognuna delle quali e proprio “quella” e non è sostituibile neanche con il più forbito sinonimo pescato in quel pozzo di san Patrizio del Tommaseo.
Così è per il libro di Umberto Castagna “Andrai e tornerai” (Graus editore), che mi è giunto sulla via di FB, attraverso un’amicizia virtuale con l’autore, che adesso non è più virtuale, non nel senso che ci siamo incontrati di persona, ma perché chi legge il libro a cui l’autore si affida – mente, anima, passato, sentimenti, travagli – non può non dirsi suo amico.
Ben presto però – alla terza riga o giù di lì – il dovere amicale ha lasciato il, passo al piacere sublime di una lettura profonda e “seduttiva”. Sul secondo aggettivo ho riflettuto a lungo, poi ho deciso di adoperarlo perché, dal mio punto di vista, nulla è più seduttivo della mente e nulla scava meglio una traccia dentro di noi. E dunque ho anch’io adottato nella lettura il passo narrativo dell’autore, uno zigzag nel tempo e nei fatti, scoprendo ad ogni svolta, ad ogni apparente retournez un aggancio che mi teneva avviluppata al racconto.
Umberto è un uomo coltissimo e ciò traspare dalla sua scrittura, mai appesantita da una passerella di saccenteria, ma fluente e convincente. In questo libro-confidenza (volutamente scarto il termine “confessione”) scritto per i suoi figli, ogni lettore si sente suo figlio e prova gratitudine per la fiducia nella comprensione dei motivi profondi che lo hanno mosso verso decisioni davvero individualmente rivoluzionarie.
Confesso che io non amo raccontare nelle recensioni le trame dei libri, ma le emozioni. Mi sembra di sottrarre al lettore qualcosa, il gusto della scoperta e della conquista della vicenda. Per Umberto dirò, molto stringatamente, che è la storia di un uomo che, quasi per espiare un lutto fortissimo, si è auto costruito una prigione tale da tarpare le ali alla propria piena realizzazione. Una prigione che lo ha portato, soltanto intorno ai quaranta anni a prendere consapevolezza di sé, col supporto di una psicoterapeuta che s’intuisce non sia stata prevaricante ma che con mano leggera lo abbia guidato verso l’evoluzione e l’accettazione di sé. Qualche sfumatura di Bernanos riecheggia nella memoria, ma, mentre nel “Diario di un curato di campagna” a prevalere è la disperazione, la solitudine, il buio, in “Andrai e tornerai”, malgrado si narri (anche) di una coercizione del voto sacerdotale (ecco, mi sono fatta scappare un indizio) c’è luce ed ispirazione (…)
Luce sono le rondini, i paesaggi e gli scorci di natura che Umberto ha introiettato e trasferisce nella scrittura restituendone a noi tutta la malia. Napoli, Roma, Palermo sono il triangolo fatale della vita di Umberto: coi loro paesaggi, monumenti, atmosfere; l’ibernazione dei conventi – non a caso san Francesco amava stare all’aperto -; il calore dell’amore (la meteora di Nella, quasi un detonatore; la scelta quotidiana di Lucia, con cui intreccia le proprie radici); l’amicizia con Enzo e Liberato, che possiedono la capacità di allentare in Umberto le catene che gli straziavano l’anima…
Spero di aver saputo interpretare il messaggio di un uomo che si riscopre Uomo e non ombra di se stesso, secondo un modello di sé che si era prefabbricato: Solo un uomo, dunque, ma che uomo, nella sua umanità. Persino da irritarmi un po’, vi confesso, rispetto alla processione di individui sbagliati che hanno incrociato la mia strada. Un uomo che piange, che si arrovella e trova in sé la strada, senza caricare la donna che ha accanto dell’irrisolto e dell’irresolutezza. Un uomo con cui confrontarsi e dialogare. E vi pare poco?
Anna Maria Barbato Ricci *
Giornalista,
già chief of press office del ministero dei Trasporti
già chief of press office della Presidenza del Consiglio dei Ministri
Attualmente consultant presso UNICEF.
INCIPIT
Rondini
Nelle sere di primavera imparai ad amare la loro presenza aerea. Il cielo scolorava, il crepuscolo era ancora lontano, e apparivano.
Avevo sette anni, abitavamo in un appartamento al quarto piano sulla collina del Vomero, la nostra casa era il mio mondo, il balcone della sala da pranzo la mia terrazza sulla vita.
Si lanciavano in stormi immensi da destra e da sinistra, garrendo, le rondini. Partivano da di sa dove, le vedevo arrivare in schiere apparentemente disordinate in alto nel cielo, oscurandolo parzialmente.
Lassù componevano geometrie sempre diverse e di certo preordinate da un istinto nativo, si tuffavano verso le case (no, verso di me, capite? verso di me!) da altezze che mi apparivano enormi, riempivano la mia anima di bambino di grida gioiose, ripartivano.
Ripartivano verso l’alto e verso sinistra, le vedevo veleggiare verso la cupola della chiesa di san Gennaro, circondarla di nuove figure, danzando, e poi lanciarsi a disegnare contro l’azzurro del cielo forme complesse e rigorose, cantando di gioia.
Quanto mi hanno donato, quanto hanno contribuito a impastare la mia anima di amore per la vita, di gusto per la bellezza, di ammirazione per la natura, quei voli di rondini? Sono così vivi dentro di me i loro garriti che, se lo voglio, posso, anche senza chiudere gli occhi, senza immergermi nel passato, sentirli ancora.
Porto nella mia anima i voli di rondini che si intrecciavano su di me e sulla mia casa settant’anni fa.
E voi, le conoscete? No, forse no, forse non avete mai avuto l’esperienza di un volo di rondini, la città le ha cacciate, forse le ha uccise. E voi forse avete perduto una delle più umili e inebrianti conoscenze del mondo.
I loro voli furono invece tra le prime impressioni che si stamparono dentro di me, al mio arrivo, in quel lontano maggio del 1937 quando papà portò a Napoli la nostra famiglia, e io non avevo ancora compiuto sette anni.
Era maggio, le rondini avevano ripreso i loro voli primaverili e mi accolsero tra di loro. Mi accettarono.
Credo che avessero i nidi tra i rami degli alberi di via Scarlatti, di via Cimarosa e – più sicuramente – della Floridiana. Erano troppe per non aver bisogno di decine di alberi e di migliaia di rami.
Mentalmente le conto. Pensate: oltre settant’anni dopo sono in grado di rivederle. Però non posso contarle davvero, non avrei potuto farlo neppure allora, ma erano centinaia. Forse erano diversi stormi, che andavano, venivano, creavano le loro perfette geometrie celesti, nere com’erano contro il cielo, perfetto anch’esso nel suo azzurro struggente, e imprimevano nella mia anima un’indelebile immagine di bellezza.
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