Ami dagli occhi color del mare

4,99

Formato: Epub, Kindle

Autore: Valerio Sericano

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-6690-254-6 Categoria: Tag:

Descrizione

In questo romanzo si intrecciano due storie, una contemporanea, il cui protagonista è Giaco, uno studente universitario sognatore e squattrinato che vive a Genova, e una ambientata nel passato, che si svolge prevalentemente nell’Argentina del primo Novecento, il cui protagonista si chiama Cesco, bisnonno di Giaco.

Il ragazzo riesce a dar vita ad una relazione virtuale con una coetanea giapponese, nata via internet di fronte allo schermo di un computer, iniziando un rapporto a distanza che si trasforma con il passar del tempo in qualcosa di concreto, tanto da convincere i due ragazzi ad incontrarsi sul serio.

Giaco vola in Giappone e ne nasce una vera storia d’amore che sembra reggere pur scontando il problema delle distanze. Tuttavia tutto finisce in seguito alle conseguenze dello sconvolgente tsunami abbattutosi sulla costa orientale giapponese l’11 marzo 2011, evento vissuto da Giaco in prima persona.

Tornato in Italia, il giovane riprende a vivere, faticando a cancellare dalla mente il ricordo traumatico dell’avventura giapponese, filtrando le nuove esperienze di vita attraverso il ricordo della tragedia vissuta e di quell’amore perduto, finché non scopre casualmente un plico di vecchie lettere sepolte in soffitta, grazie alla quali giunge a conoscenza delle esperienze del proprio bisnonno, narrate fino a quel momento all’interno del romanzo parallelamente alla storia contemporanea.

Le due vicende finiscono per intrecciarsi fra loro nel momento in cui le lettere rivelano a Giaco l’esistenza di un’intensa storia d’amore che Cesco aveva vissuto durante gli trascorsi in Argentina, una storia cui il giovane di oggi si appassiona molto.

Le analogie tra la storia del bisnipote contemporaneo e del bisnonno vissuto cent’anni fa non mancano, ma la grande differenza risiede proprio nei mezzi di comunicazione, che oggi forse ci rendono più superficiali, ma che ci permettono di mantenere vivi dei contatti in modo un tempo impensabile.

INCIPIT

Porto di Genova, gennaio 1910

Dopo aver guardato l’amico dritto in volto, con aria stupita Cesco disse: “Certo che è davvero bella grande, eh, Torio?”

Guardando la grande nave ormeggiata davanti a sé, Vittorio rispose con un velo di preoccupazione: “Basta che ci porti fin dove dobbiamo arrivare…”

Negli occhi dei due giovani c’era lo smarrimento di chi neppure aveva mai visto il mare. Dentro di loro la paura dellʼignoto, quella che attanaglia chi deve affrontare unʼesperienza nuova, mai provata prima.

Cesco respirava l’aria che arrivava dal mare. Quel forte odore di salsedine che gli riempiva le narici lo aveva convinto di essere lontano da casa molto più di quanto fosse la distanza reale, proiettato in un mondo misterioso e sconosciuto, ancora tutto da scoprire.

I due giovani stavano aspettando l’imbarco per Buenos Aires e intorno a loro si muoveva una tale massa di persone che prima di allora non avevano mai visto. Tanti uomini di diverse età alla ricerca di un futuro da costruire, oppure a caccia di un’occasione di riscatto da un’esistenza fatta di fame e miseria. Ma anche tante famiglie con bambini appresso, tutte quante alla ricerca di una svolta nella vita.

Persone di varia estrazione sociale, provenienti da diverse regioni italiane, ciascuna con il proprio dialetto e con le proprie tradizioni, differenti fra loro ma accomunate dalle stesse speranze, paure e ambizioni.

Cesco e Vittorio erano arrivati a Genova due giorni prima, viaggiando in treno con i bagagli appresso. Cesco aveva un baule di legno foderato di stoffa con il coperchio bombato, Vittorio una cassapanca squadrata un po’ più piccola. Entrambi venivano da Rivotorto, un paesino del basso Piemonte dove erano nati ventuno anni prima.

Per due notti avevano alloggiato a spese della compagnia marittima in una pensione affollatissima, dovendo sostenere le visite mediche necessarie per procedere all’espatrio. Dopo averle superate, erano stati convocati al molo per l’imbarco sul piroscafo.

Cesco, al secolo Francesco Bertasco, era il secondogenito di una famiglia di sette figli composta da due maschi e cinque femmine. Fino a quel giorno aveva vissuto nella cascina dei genitori, aiutando la famiglia nel lavoro dei campi.

Poco tempo prima aveva sostenuto la visita di leva, ma era stato riformato dall’esercito per un difetto alla vista che lo rendeva leggermente strabico. Per qualche mese aveva lavorato alla costruzione della ferrovia che correva in direzione nord-sud sotto una lunga e piatta collina distante cento metri dalla Gorba, nome con il quale era conosciuta la cascina di famiglia.

A un tiro di schioppo in direzione opposta c’era la cascina Gorbetta, in quel momento disabitata.

Poco distante era sita la Fornarina, dov’era nato e aveva vissuto fino a quel momento il suo amico Vittorio. Sempre nella stessa zona trovava posto la scuola che i due ragazzi avevano frequentato nelle classi miste fino alla terza elementare, quanto era bastato loro per imparare a leggere e scrivere.

L’esperienza scolastica per il piccolo Cesco era stata piuttosto difficile e per nulla proficua. Già al secondo giorno di scuola, quando aveva capito a cosa sarebbe andato incontro, scappò il mattino presto sull’albero più alto delle campagne intorno a casa e vi rimase per una mattina intera, incurante del richiamo dei genitori.

Il mondo di Cesco e Vittorio era tutto in quel fazzoletto di pianura, costellato di quelle piccole cascine che facevano da contorno alla grande tenuta agricola del cavalier Peduzzi, un ricco proprietario terriero che anni prima aveva deciso di investire parte dei suoi averi in un’estancia in Argentina, dove sul finire del XIX secolo si potevano fare buoni affari grazie all’economia in forte espansione del paese sudamericano.

Un giorno, un emissario del Peduzzi bussò alla porta dei Bertasco per chiedere a Rosalba, la madre di Cesco, se fosse interessata a mandare i suoi figli a lavorare in America. Lei rispose che il primogenito stava facendo il soldato, ma il secondo avrebbe potuto accettare. L’uomo, un tale che tutti conoscevano come Gilo, disse allora che sarebbe ripassato al più presto per avere una risposta.

Elvira, la figlia più giovane, aveva sedici anni e aiutava la famiglia nella vita di cascina. Avendo ascoltato il dialogo tra quell’uomo e la madre, lasciò immediatamente le faccende di casa e corse fuori, iniziando a camminare svelta in direzione della collina, sotto la quale stava lavorando Cesco.

Quando il fratello la vide arrivare posò immediatamente la pesante mazza con la quale stava martellando i binari in posa lungo la ferrovia. Andandole incontro le chiese preoccupato: “Narra, che ci fai qua? È successo qualcosa alla cascina?” Si rivolgeva da sempre alla sorella minore con quel nomignolo perché da bambina la prendeva in giro canzonandola con un ritornello: ‘Narra, Narra, che suona la chitarra…’. Da allora aveva continuato a chiamarla in quel modo affettuoso.

Elvira gli rispose in evidente stato di frenesia: “No, non è successo niente, Cesco. Però è venuto il Gilo, un uomo del Peduzzi, a chiedere se vuoi andare a lavorare in Argentina!”

“In Argentina?” chiese Cesco con stupore.

“Sì! Ha detto che cercano della gente da mandare là a lavorare nei campi… Vogliono presto una risposta.”

“Va bene, ne parliamo a cena stasera” le rispose il fratello porgendole furtivamente la mezza pagnotta avanzata dal rancio che ogni giorno teneva da parte proprio per lei.

“Allora ci vediamo alla cascina quando fa buio!” concluse la giovinetta dopo aver rapidamente nascosto il pane sotto l’ampia veste che portava. Poi ritornò a passo svelto verso casa, dove la madre la stava aspettando per farle continuare i lavori in cucina.

Cesco riprese subito a martellare i bulloni guardando il pallido sole invernale tramontare dietro la collina. Intanto ripensava alle parole di Elvira, perché un giorno qualcuno gli aveva detto che la Merica era proprio in quella direzione.

Al termine del proprio turno di lavoro posò la mazza fermandosi a fissare ancora il cielo in direzione del tramonto, guardando il punto più lontano che riusciva a scorgere. Così facendo cominciò a immaginare l’Argentina, tanto che gli parve quasi di vederla.

La cascina Gorba aveva la struttura tipica delle case site nelle campagne piemontesi. Su di un lato cʼera una grande cucina al centro della quale trovava posto il forno per il pane, che in inverno riscaldava lʼambiente e anche il piano superiore, dove erano ricavate le camere da letto.

A queste si aveva accesso per mezzo di una ripida e stretta scala situata di fronte alla porta d’ingresso dell’abitazione, mentre dalla parte opposta alla cucina trovava spazio la sala, l’ambiente dedicato alle grandi occasioni, un luogo in cui non si entrava mai, se non ai battesimi, ai matrimoni o ai funerali.

Di fianco ai locali a uso abitativo c’era la stalla e sopra di questa il portico dove venivano sistemate la paglia e il fieno necessari per prendersi cura del bestiame.

La cascina era stata portata in dote al marito da mamma Rosalba, la quale proveniva da una famiglia benestante, mentre i Bertasco erano una famiglia di poveri braccianti agricoli.

Il padre di Cesco si chiamava Cristoforo. Benché avesse sempre lavorato la terra, sentiva che quella vita non faceva per lui. Gli piaceva molto di più vagare per i mercati a discorrere con i mediatori e gli affaristi piuttosto che spaccarsi la schiena nei campi, mentre le serate preferiva trascorrerle in osteria a giocare a Marianna con gli amici invece che annoiarsi alla cascina. Perciò era la moglie Rosalba che prevalentemente si occupava di tutto, compresa la gestione degli affari di famiglia.

Cesco rispettava l’autorità del padre e non aveva nulla di che rimproverargli, anche perché quel suo modo di vivere non turbava il rapporto stretto che lui aveva con mamma Rosalba, alla quale era molto affezionato, essendo la figura che rappresentava il vero punto di riferimento del suo mondo.

Invece non andava molto d’accordo con il fratello maggiore Bartolomeo, di alcuni anni più grande di lui, il cui carattere burbero e autoritario lo faceva somigliare a una caricatura dell’autorità paterna, alla quale Bartolomeo ambiva sostituirsi soprattutto nei confronti delle sorelle.

Tra queste, Cesco aveva una particolare predilezione per Elvira, di cinque anni più giovane di lui, con cui aveva trascorso da sempre molto tempo, sebbene non la si potesse considerare una vera e propria compagna di giochi perché l’infanzia in quel particolare mondo contadino finiva sempre molto presto, anzi talvolta neppure faceva tempo a iniziare per quanto i bambini erano chiamati a darsi da fare già da piccoli.

Non appena Cesco rientrò a casa, la madre lo informò della proposta ricevuta dallʼuomo del Peduzzi, sulla quale lui aveva già avuto modo di riflettere. Durante la cena non si parlò d’altro.

Papà Cristoforo gli disse che quell’offerta poteva essere una buona occasione per fare dei soldi, mentre la madre valutò la faccenda dal punto di vista sentimentale, mostrandosi un po’ contrariata all’idea di sapere il figlio così lontano, dall’altra parte del mondo.

Rivolgendosi direttamente a Cesco, disse: “Oggi ho parlato anche con la Fiorenza, della Fornarina, che mi ha detto che quelli del Peduzzi sono andati pure da loro. Sembra che Vittorio abbia già detto di sì. Se decidi di partire, per lo meno non sarai da solo…”

Cesco pensò subito ai suoi rapporti con il coetaneo. Benché non si fossero mai frequentati molto, conosceva Torio da quando era bambino, dai tempi della scuola. Ricordava che quando avevano circa tredici anni, durante un inverno molto rigido, Vittorio lo aveva sfidato ad attraversare a piedi la fossa, uno specchio d’acqua situato a metà strada tra le cascine dei due ragazzi, la cui superficie quel giorno era completamente ghiacciata. Si trattava di un laghetto non molto grande, circondato da una macchia di querce, utilizzato per attingere l’acqua durante la stagione calda, soprattutto nei periodi di siccità.

Cesco ricordava di avergli detto: “Vai tu per primo, se hai così tanto coraggio…” Torio allora cominciò a camminare sul ghiaccio con circospezione, ma quando arrivò verso il centro della fossa, il ghiaccio cominciò sinistramente a scricchiolare. Il ragazzo allora affrettò il passo e con due balzi arrivò dall’altra parte, esultando felice. Poi esortò lʼamico ad accettare la sfida: “Adesso tocca a te! Dai…!”

Ben sapendo che al centro la fossa era profonda ben più di due metri, Cesco aveva interpretato quello scricchiolio del ghiaccio come un sinistro presagio. Di fronte allʼipotesi di andare sotto e annegare dentro l’acqua gelida, rimase quindi immobile a guardare la superficie ghiacciata senza dire nulla, mentre Torio, dall’altra sponda lo canzonava ad alta voce: “Fifone! Fifone!”

Certamente non fu solo per quel ricordo dʼinfanzia che Cesco decise di partire anche lui per l’Argentina, ma l’idea di vedere Vittorio dargli ancora una volta del fifone non la sopportava proprio.

Quando il Gilo tornò a bussare alla porta della cascina Gorba, Cesco gli disse pertanto che avrebbe accettato la proposta, dichiarandosi disponibile a partire al più presto.

Avendo lavorato in Argentina come stagionale alcuni anni prima, l’uomo gli illustrò brevemente le prospettive di paga e il tipo di lavoro che avrebbe dovuto affrontare, ma i dettagli li avrebbero discussi al momento della partenza. Una vigorosa stretta di mano sancì l’accordo.

La mattina in cui Cesco lasciò la famiglia faceva molto freddo e rischiava di nevicare da un momento all’altro. La sua famiglia si schierò al completo nel cortile davanti alla cascina, con mamma Rosalba davanti a tutti. La donna, per salutare in modo degno il figlio che stava partendo, aveva indossato il suo abito della festa. Anche Cesco aveva messo il suo vestito migliore, sopra al quale indossava un pastrano per ripararsi dal freddo. Ai piedi portava le scarpe ben lucidate per lʼoccasione.

“Torna in casa che vestita così ti prenderai un accidenti…” disse Cesco alla madre vedendola quasi tremare per il freddo in quell’abito leggero che aveva.

“Non ti preoccupare” gli rispose lei “oggi voglio essere vestita bene, così quando sarai lontano e penserai a me, mi ricorderai meglio… E scrivi, scrivi, scrivi…” Appena dopo quellʼesortazione, lo abbracciò forte baciandolo con le lacrime agli occhi. Poi non riuscì a dire più nulla perché le era venuto un nodo in gola.

Cesco cercò di essere forte perché non voleva che il padre e le sorelle lo vedessero piangere. Per ultima salutò Elvira e in quel momento rischiò veramente di abbandonarsi alla commozione, perché lei lo abbracciò stretto e gli sussurrò all’orecchio: “Torna presto, mi raccomando, perché senza di te io qua non ci sto mica tanto bene…”

Infine arrivò il calesse condotto dal padre di Vittorio, il quale si era offerto di accompagnare i due giovani alla stazione ferroviaria. Dopo aver caricato il proprio baule sul retro del calesse, Cesco si sedette vicino a Vittorio, il quale, in stato di visibile eccitazione, lo guardò in viso sorridendo e dopo avergli stretto un braccio intorno alle spalle gli disse: “Dai, su, che questa volta si parte per davvero…!”

Cesco gli sorrise a sua volta senza dire nulla, annuendo. Avrebbe voluto girarsi indietro per dare unʼultima occhiata alla sua casa che stava scomparendo nella nebbia di quel gelido mattino di gennaio ma pensò bene di non farlo, sempre per paura di quelle maledette lacrime che potevano uscire da un momento allʼaltro.

Così puntò lo sguardo davanti a sé, tenendolo fisso sugli sbuffi bianchi che uscivano copiosamente delle narici del cavallo che trainava sicuro il calesse. Quelle nuvole di vapore furono lʼultima cosa che Cesco avrebbe ricordato della campagna che stava lasciando.

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