Descrizione
Qualcuno ha scritto: se il terrore potesse avere una voce, parlerebbe sardo. Ebbene, C’era una volta in Sardegnarisuona di accenti che trasportano il lettore all’interno dell’isola, direttamente nelle atmosfere sconcertanti che il libro propone. Cosa accade a Solus? E che significato ha la lettera che viene recapitata al protagonista, costringendolo a tornare al paese natio? Ogni episodio crea quel perfetto tassello che, come un puzzle, ricompone la storia, offrendo un quadro che nessuno avrebbe potuto immaginare, se non le vittime e i carnefici. Eppure, nemmeno le vittime, o gli stessi carnefici, avrebbero potuto organizzare una tragedia di così ampia portata. Solus non è quello che sembra e i suoi abitanti nascondono segreti che sarebbe meglio non scoprire. Il vero volto dell’orrore ha spesso connotazioni familiari, fattezze che potremmo riconoscere in chiunque. I morti parlano, la loro voce risuona fra le fronde degli eucalipti, strisciando fra l’erba, oppure intorno ai megaliti di Perdas Fittas. Il destino è sempre in agguato e sceglie le proprie prede con una cura quasi maniacale. E nessuno può considerarsi veramente al sicuro. Giancarlo Ibba tratteggia la storia con quelle pennellate noir che appartengono ai veri maestri dell’horror e lo fa con una tale naturalezza da costringere il lettore avivere la trama. Solus diventerà anche la vostra dimora… e anche voi sarete catapultati nel profondo Sulcis, arrivando a dire:
“C’è qualcosa che non va, qui”.
INCIPIT
Non ho mai amato il mio paese natale e non avevo nessun motivo valido per ritornarci. A parte quell’assurda, maledetta nostalgia, caratteristica dell’emigrato sardo. Dopo vent’anni di lontananza, stuzzicato da una misteriosa lettera, ho mollato tutto quanto e sono rientrato in quello che, fino alla tarda adolescenza, è stato il mio piccolissimo mondo.
Solus non è un bel posto dove nascere, vivere e morire.
La Storia Ufficiale ricorda che è sorto nel 1936, piena Era Fascista, sulle fondamenta di un piccolo raggruppamento di casupole e baracche abitate da pescatori, pastori e contadini. Nel Sulcis li chiamiamo “meraus”. A quei tempi le miniere di carbone attiravano e garantivano un lavoro a migliaia di minatori, impiegati e operai. Così questo sperduto e anonimo villaggio rurale crebbe e diventò un paese. Furono costruite abitazioni degne di tal nome, villette a schiera, case popolari, strade secondarie, scuole, negozi, il mercato, uffici pubblici e una chiesa enorme, degna di una piccola cittadina. Per chissà quale ragione, venne consacrata a San Giorgio, l’uccisore del drago. Quell’imponente edificio di trachite, granito e marmo, affiancato da una torre campanaria a pianta quadra, diventò ben presto l’orgoglio e il vanto dei bacchettoni compaesani.
In pochi anni, il numero degli abitanti superò le tre cifre, che per un paese sardo, in quel periodo, non era cosa da poco.
Fin dal principio sorse un problema: che nome dargli?
La risposta era a portata di mano.
A poche decine di metri dalla Piazza, in un campo incolto dietro la chiesa (non distante dal circolo megalitico diPerdas Fittas), da tempi remoti esisteva un antico pozzo a tunnel di ruvida pietra muschiosa. Un’antica leggenda locale la faceva addirittura risalire all’oscuro periodo prenuragico. Sul suo fondo ombroso, anche in piena siccità, gorgogliava una polla d’acqua salmastra e torbida. In tempi recenti, gli archeologi dell’Università di Cagliari l’avevano classificato come “sito religioso”, presso il quale venivano compiute innominabili cerimonie in memoria di una non meglio identificata divinità pagana. Da sempre, in ogni caso, era nota come “Sa funtana de is Solus”. Dopo un breve ma acceso dibattito, le autorità civili e le persone più ricche della zona, tra i quali spiccava l’architetto Massidda (il proprietario della villa omonima e responsabile del progetto urbanistico), decisero di abbreviare quell’antico toponimo. Così, con la sollecita benedizione del vescovo di Iglesias, il nuovo centro abitato venne battezzato.
Per qualche anno andò tutto bene.
I bambini nascevano con regolarità, i ragazzi studiavano, gli adulti lavoravano, si sposavano e mettevano su famiglia. I vecchi morivano in pace. Il paese sembrava operoso, sano, forte e stabile. Il futuro appariva felice e ricco di opportunità.
Con la fine della Seconda Guerra Mondiale (che da queste parti, come prevedibile, non apportò significativi mutamenti politici, storici o sociali) Solus iniziò a spegnersi. Le miniere di Carbonia e Iglesias, obsolete e antieconomiche, chiusero i loro pozzi uno dopo l’altro. Le fabbriche collegate all’attività estrattiva, e le relative aziende dell’indotto, licenziarono gran parte degli operai. Siccità e malattie flagellarono campagne e allevamenti, portando alla disgrazia braccianti e mezzadri.
A quel punto, la popolazione locale, indigente, affamata e scoraggiata, cominciò a emigrare “in Continente” (da queste parti la Penisola Italiana è sempre definita così) o addirittura in “America” (del Nord o del Sud, stessa cosa). Alla fine di questa diaspora, gli abitanti di Solus si stabilizzarono intorno alle novecento-mille unità. Una buona parte di questi erano: vedove, malati, invalidi civili, di guerra, disoccupati cronici. Il tasso di natalità cominciò a scendere, quello di mortalità a salire. L’unico fattore in costante aumento, oltre alla povertà, era la religiosità della cittadinanza. I ricchi avevano di meglio da fare che pregare. Per fortuna, la chiesa era molto grande.
Le cose non cambiarono molto nei decenni seguenti.
Il cosiddetto “Polo Industriale”, dopo il consueto iniziale entusiasmo elettorale, anziché una “boccata d’ossigeno” per l’economia della zona, rappresentò soprattutto inquinamento, Cassa Integrazione Straordinaria e carcinomi di vario genere.
Insomma, come è facile intuire, Solus non mi è mancato per nulla, in questi due decenni di assenza: è un luogo che mi sta stretto come la camicia di forza di un manicomio.
Infatti, adesso che sono a pochi chilometri dal bivio che separa il paese dal resto del Sulcis, dopo un’odissea di venti ore (tra macchina e traghetto), ho già voglia di andarmene…
È come un brutto presentimento. Lo sento dentro le ossa.
C’è qualcosa che non va, qui.
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