Boschi nei dintorni di Consonno (Lc)
L’aria fresca e carica dell’umido odore di sottobosco gli pizzicava le narici. Le suole degli scarponi di cui andava molto fiero, dei leggeri Stealth Plus GTX della Crispi, calpestavano il terreno fangoso e ricoperto di fogliame marcio. L’intera zona era stata infradiciata da un violento temporale che si era scatenato durante la notte e aveva rovesciato sul terreno una quantità d’acqua fuori dal normale. Le nuvole scure che coprivano il cielo minacciavano una nuova scarica a breve.
Le previsioni dell’Aeronautica Militare non sbagliano mai, pensò Lucio Rampi, mettendo il piede destro su una formazione di muschio verdastro cresciuta accanto a un albero caduto che gli sbarrava la strada. Lucio superò l’ostacolo con un balzo atletico. Anche se era alla soglia dei cinquant’anni, conservava un’invidiabile forma fisica.
Attraverso gli occhiali protettivi, le iridi di Lucio scandagliavano l’ambiente per individuare il percorso migliore da seguire. Tra le mani, avvolte in un paio di guanti tattici, teneva stretta la sua carabina M4 pronta al fuoco.
Lucio percorse una decina di metri prima di bloccarsi di colpo. Una leggera brezza gli accarezzò i capelli neri la cui attaccatura, con suo grande rammarico, si alzava ogni anno sempre più nonostante tutti i suoi tentativi di contrastare quel segno di invecchiamento. All’improvviso l’uomo sollevò un pugno per ordinare ai tre compagni sotto il suo comando di fermarsi, poi si inginocchiò per studiare l’anomalia notata sul terreno: un filo sottile e trasparente che sembrava galleggiare in aria a una decina di centimetri da terra. Osservò il filo che partiva da un albero dal tronco sottile e lo seguì per tutta la sua lunghezza, fino al punto in cui era collegato a un cilindro metallico nascosto in un cespuglio spinoso.
Una trappola esplosiva.
«Facciamo il giro di là» sussurrò ai compagni, indicando un percorso alternativo.
«Ok» rispose per tutti Giulio Cogni, sollevando un pollice. Con i suoi cinquantadue anni era il più anziano della squadra. Suo fratello Dino ne aveva solo due in meno di lui. Giulio s’incamminò dietro Lucio, seguito da Dino e da suo figlio Gioele. Così come Lucio, anche loro indossavano una mimetica a tema boschivo e vest tattico per trasportare l’attrezzatura.
Il team leader proseguì aggirando la trappola. Ormai, erano quasi arrivati: l’obiettivo della missione era attaccare un vecchio capanno in disuso che sorgeva proprio in mezzo al bosco. La banda di Lucio non era l’unica incaricata di condurre l’assalto: altre tre squadre stavano convergendo sull’edificio, arrivando da direzioni diverse per cinturare l’area. Anche se i difensori si trovavano in inferiorità numerica, erano agguerriti e ben trincerati nel capanno e, inoltre, avevano il vantaggio più importante: quello di riceverli. Lucio sapeva che molti degli assaltatori sarebbero caduti sotto il fuoco nemico; conquistare l’edificio non sarebbe stato affatto semplice.
Pochi minuti più tardi il capanno era ormai in vista. Si trattava di una semplice struttura in legno composta da un’unica stanza: il tetto triangolare ricordava due carte da gioco appoggiate in equilibrio una contro l’altra, tre dei lati presentavano ciascuno una finestra senza vetri mentre la porta, che un tempo sbarrava l’ingresso, era stata divelta parecchi anni prima. Dalla sua posizione Lucio poteva scorgere il lato destro del capanno. Notò un movimento rapido e intuì la forma di una testa che si muoveva dietro la finestra.
«Andiamo?» domandò impaziente Giulio, grattandosi il cranio rasato per mascherare le calvizie.
«Facciamo iniziare gli altri» propose saggiamente Gioele, vent’anni compiuti da cinque giorni. Il suo volto era nascosto dietro maschera integrale raffigurante un teschio sulla quale ricadevano ciuffi disordinati di capelli castani. Tra le squadre d’assalto non esisteva alcun tipo di coordinamento: ciascuna attaccava quando era pronta.
«Sono d’accordo» dichiarò Lucio. «I primi ad andare all’attacco avranno più perdite.»
Non ci fu bisogno di dire altro, lo scontro si accese all’improvviso. Una nuvola di fumo bianco era apparsa tra un gruppo di alberi di fronte al lato principale del capanno e uno dei difensori, da una finestra, aveva fatto partire una raffica in direzione di quel segnale di presenza nemica. Dal bosco, diversi fucili scatenarono all’unisono la loro risposta.
«Hanno iniziato!» sentenziò Dino.
«Secondo me, è quel coglione di Loris che ha fatto scattare una trappola» sghignazzò Giulio, stringendo con forza il calcio della sua arma. Essendo il più robusto della compagnia gli toccava il compito più faticoso: imbracciare una mitragliatrice leggera.
Nascosto dietro un folto arbusto, Lucio osservava la scena. «Attacchiamo anche noi. Giulio, tu spara contro quella finestra, mentre noi cerchiamo di raggiungere l’ingresso».
«Ricevuto!»
Giulio cercò un buon appoggio per la mitragliatrice. Trovò uno spesso ramo che poteva fare al caso suo, sistemò l’arma e la puntò verso la finestra mentre i suoi compagni si preparavano a uscire dal bosco per correre verso l’ingresso. Come gli accadeva ogni volta prima di un’azione, Lucio avvertì il cuore pompare al massimo della sua capacità e ogni suo muscolo tendersi sotto la spinta dall’adrenalina che gli scorreva nelle vene.
Dalla finestra che Giulio teneva sotto tiro giunse una scarica.
«Mi hanno preso!» urlò Dino, con un tono che esprimeva sorpresa e rabbia.
Se si fosse trovato in una vera operazione militare si sarebbe preso un proiettile in pieno petto e sarebbe stramazzato al suolo ma, trattandosi in realtà una partita di softair, si limitò ad alzare entrambe le mani al cielo e indietreggiare imprecando.
Giulio premette il grilletto e dalla canna della sua mitragliatrice partì una raffica di piccoli pallini di plastica che tempestarono rabbiosamente la finestra. Il motorino elettrico che faceva funzionare l’arma ronzò come un moscone impazzito.
«Muoviamoci!» incitò Lucio, rivolgendosi a Gioele. La coppia corse verso il capanno, coperta dal fuoco della mitragliatrice di Giulio. Una pioggia di pallini investì l’edificio. Dall’interno i difensori sputarono altre sventagliate di proiettili di plastica che misero rapidamente fuori gioco alcuni degli attaccanti.
Lucio scattò verso la casa tenendo la sua carabina in punteria per essere pronto a reagire a ogni minaccia. L’improvvisato assaltatore riuscì miracolosamente a raggiungere l’ingresso senza essere colpito e, una volta che si fu messo al riparo, appoggiò la schiena alla parete per riprendere fiato. Gioele lo raggiunse un istante più tardi poi altri due assaltatori sbucarono dal bosco di fronte e si posizionarono dall’altro lato dell’ingresso.
«Chi va prima?» chiese Loris, uno dei due nuovi arrivati. Evidentemente non era stato lui a far scattare la trappola.
«Dopo di voi, signori. Largo ai migliori» rispose Lucio. Un ghigno era comparso sotto la maschera che gli proteggeva la bocca dall’impatto dai pallini.
«Vai a cagare!» ribatté Loris. Detto ciò, lui e il compagno di squadra fecero irruzione nell’edificio, sparando all’impazzata. Entrambi furono centrati in pieno e immediatamente alzarono le mani, dichiarandosi fuori gioco. Lucio ne approfittò per sgusciare all’interno e fu veloce a trovare un riparo dietro a una barriera di legno posizionata appena oltre l’ingresso. Ne erano state installate mezza dozzina per simulare dei ripari. Gioele riuscì a seguire Lucio indenne, intanto che una grandinata di pallini scheggiava la parete.
Lucio stimò che fossero rimasti appena due difensori tra lui e la vittoria. «Ci sono Sandro e Tommy là dietro. Dobbiamo farli fuori. Io ti copro, tu cerca di avanzare» ordinò a Gioele.
«Va bene!»
«Al mio tre! Uno, due… tre!»
Lucio si sporse di lato dalla barriera e riuscì a colpire Tommy. Intanto, Gioele corse verso il riparo successivo. Lucio spostò la mira verso Sandro, ma prima di poter sparare avvertì alcuni pizzichi sulla pelle che segnavano la sua morte nel gioco. Una manciata di pallini lo aveva centrato al petto ed era rimbalzata sul pavimento.
«Porca trota!» imprecò Lucio.
Gioele colse l’occasione per colpire Sandro, strappandogli una sonora bestemmia. Ora che tutti i difensori erano stati eliminati, senza alcuna fretta, Gioele afferrò la bandiera rossa, che faceva bella mostra di sé appesa a un chiodo arrugginito. Poi tolse la maschera e sfoderò un radioso sorriso, sventolando trionfalmente il trofeo in direzione di Lucio. La partita era finita con la vittoria degli attaccanti.
Mezz’ora più tardi, tutti i giocatori erano riuniti fuori dal bosco. Le loro automobili erano parcheggiate lungo una strada interrotta che conduceva a Consonno, paese disabitato in provincia di Lecco. In tutto erano una ventina, chiacchieravano e fumavano allegramente mentre riponevano armi e attrezzatura nei bagagliai. La domenica mattina era passata in fretta ed era ormai ora di pranzo. L’adrenalina del combattimento era scemata e i giocatori si preparavano a tornare alle loro vite di tutti i giorni.
«Meglio sbrigarsi che tra poco ne viene giù a secchiate» commentò Giulio, guardando il cielo grigio attraverso le lenti degli occhiali da vista.
«Sì, mi sa che abbiamo finito appena in tempo» gli fece eco Dino. Al contrario della testa del fratello, del tutto calva, la sua era coperta da una folta chioma di capelli grigi. A pochi passi da loro, Gioele stava discutendo animatamente con uno dei giocatori, quello rimasto per ultimo a difendere il capanno.
«Non dire cazzate! Ti avevo colpito!» accusò Sandro, sistemando una granata fumogena all’interno di un borsone.
«Ma vaffanculo! Mi è passata vicina una scarica, ma non mi ha preso» ribatté Gioele, spostando un ciuffo di capelli.
«Certo che ti ho preso! Ti avevo avvisato che non mi piacciono gli immortali».
Il softair era uno sport che si basava sull’onestà dei partecipanti, non essendoci arbitri a regolare le partite. Si contava sul fatto che un giocatore colpito lo avrebbe dichiarato subito e avrebbe abbandonato sportivamente lo scontro ma, purtroppo, non sempre ciò accadeva. I giocatori che erano restii a dichiararsi colpiti venivano chiamati “immortali”.
«Non sono un immortale!».
Lucio si avvicinò ai due litiganti, tra le mani aveva una sigaretta quasi del tutto consumata. «Basta, ragazzi! Ma davvero volete rovinarvi la giornata?» intervenne.
«Non voglio rovinarmi la giornata. È solo che non mi piace essere preso per il culo».
«Io non ho preso per il culo nessuno, lo giuro!” insistette Gioele, posandosi una mano sul petto.
Sandro agitò una mano come a scacciare una mosca per sottolineare che non credeva al giuramento di Gioele. «Sì, sì. Lasciamo perdere…».
«Ma io…» tentò timidamente di ribattere il ragazzo.
Dino posò una mano sulla spalla del figlio e lo fece allontanare. «Dai, lascia stare. Certa gente non sa perdere».
Lucio rimase solo con Sandro. “Hai recuperato tutti i fumogeni?” domandò, per cambiare argomento e tentare di stemperare la tensione.
«Sì» rispose l’uomo, scocciato.
«I nastri li hai tolti?» domandò di nuovo, riferendosi alle fettucce bianche e rosse che venivano usate per delimitare l’area di gioco.
«Tutto fatto» fu la laconica risposta di Sandro.
«Bene. Grazie».
Era passato poco più di un quarto d’ora dalla discussione tra Gioele e Sandro e la maggioranza dei giocatori era ormai andata via. L’unico veicolo ancora parcheggiato a lato della strada era l’impolverato Dacia Duster di Lucio, con il quale viaggiavano anche i componenti della sua squadra.
Lucio e Giulio erano chini sul vano motore aperto, il cui portellone faceva sembrare il SUV un grosso animale pronto a inghiottirli.
«Secondo me la centralina è fottuta» sentenziò Giulio, scuotendo pensosamente la testa.
«Ma com’è possibile, così all’improvviso?» domandò Lucio, sconsolato. Tra le sue labbra penzolava una sigaretta appena accesa.
«Così va il mondo. Un attimo prima le cose funzionano e l’attimo dopo si guastano» ironizzò Gioele.
«Da qui non ci si muove. Bisogna chiamare il carro attrezzi» sentenziò Giulio, dando un’occhiataccia al ragazzo.
Lucio sbuffò. «Che palle! Meno male che ho il soccorso stradale compreso nell’assicurazione».
L’uomo recuperò il suo smartphone e chiamò il carro attrezzi. A quel punto, non rimaneva che attendere: i quattro decisero di aspettare seduti nel veicolo.
Neanche cinque minuti dopo un SUV nero sopraggiunse dalla stradina e si fermò a pochi metri dal Duster.
«E questi chi sono?» domandò nervosamente Giulio, seduto nel posto del passeggero anteriore.
«Non lo so, ma di sicuro non sono quelli del soccorso stradale» rispose Lucio.
Dal SUV nero sbucarono cinque uomini, tutti dal fisico atletico, vestiti con pantaloni cargo e giacche sportive. I loro volti erano insolitamente seri. Il piccolo drappello puntò con decisione verso il Duster.
Quella vista allarmò Lucio. «E questi che vogliono adesso?»
Un tizio biondo con gli occhi azzurri, parzialmente nascosti dietro a un paio di occhiali da vista dalle lenti rotonde, infilò la mano nella giacca e tirò fuori un tesserino plastificato. Da sotto il suo naso spuntavano un paio di folti baffi con le punte rivolte all’insù. Si avvicinò dal lato sinistro del SUV e appoggiò il tesserino contro il finestrino del guidatore. Lo tenne così giusto un paio di secondi, poi bussò sul vetro.
Nel silenzio inquieto che regnava all’interno dell’abitacolo, Lucio cercò la maniglia e fece scattare l’apertura della portiera. Il biondo fece subito due passi indietro, in modo che il guidatore potesse aprire lo sportello.
«Buongiorno, sono l’ispettore Leone della Polizia di Stato. Potete scendere dall’auto, per favore?» domandò con educazione l’uomo con i baffi.
Lucio deglutì saliva. «Per quale ragione?»
«Non si preoccupi, abbiamo solo bisogno di farvi alcune domande» rispose Leone, sfoderando un sorriso cordiale.
«Domande? Se è perché qualcuno ha segnalato la presenza di persone armate nel bosco, guardi che siamo giocatori di softair. La caserma dei Carabinieri di Olginate è stata avvisata».
«Sì, questo lo so. Non è di questo che ho bisogno di parlare con voi».
«Allora di che si tratta?»
«Scendete dall’auto e lo saprete».
Lucio si voltò verso Giulio, percependo una nota di preoccupazione sul suo volto.
«Forza, non ci vorrà molto» li esortò Leone.
Il quartetto di amici obbedì controvoglia alla richiesta e, un attimo dopo, si ritrovò allineato davanti al Duster. Leone e i suoi uomini erano schierati di fronte a loro come un plotone d’esecuzione in procinto di giustiziare dei condannati.
«Voi siete i signori Giulio e Dino Cogni, giusto?» iniziò Leone.
I fratelli annuirono all’unisono.
«Mi risulta che ieri mattina il signor Giulio è stato contattato da un certo Giorgio Bassich. È corretto?».
Giulio ebbe un impercettibile sussulto. «Sì, è corretto…».
«Se non sbaglio vi conoscete da molto tempo».
«Sì, praticamente da quando eravamo bambini».
«Lei è al corrente del fatto che il signor Bassich è indagato per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti?».
Una risata nervosa uscì dalla bocca di Giulio. «Ma che diamine sta dicendo? Non è possibile. Lui lavora all’ambasciata italiana a Tripoli…».
Leone rimase impassibile. «È un agente dell’AISE, a voler essere precisi».
«Dell’AISE? Ma figuriamoci… Dino, hai sentito?» domandò Giulio, rivolto al fratello.
Dino non riuscì a rispondere.
Leone proseguì con le sue domande. «Di recente è stato emesso un mandato di cattura internazionale nei confronti di Bassich e di due suoi complici: Paolo Ferrone e Linda Moser. Ha mai avuto contatti con queste due persone?».
«Certo che no!» esclamò Giulio, con la voce che tradiva una punta di nervosismo.
«E lei, signor Dino?».
«Ehm, no. Mai sentiti» rispose Dino, dopo un istante di esitazione.
«Posso sapere cosa vi siete detti lei e Bassich?» indagò Leone, fissando Giulio con occhi da predatore.
La fronte di Giulio iniziò a imperlarsi di sudore, nonostante la brezza fresca che soffiava smuovendo le foglie degli alberi. «Ma niente… Non siamo stati molto al telefono. Mi ha detto che era tornato in Italia per qualche giorno e mi ha chiesto di incontrarci. Siamo rimasti d’accordo che ci saremmo risentiti domani».
«Quindi, non vi siete ancora incontrati?».
«No, no. Ancora no».
Leone rimase in silenzio per qualche istante. Lucio scambiò uno sguardo interrogativo con Gioele: non ci stava capendo nulla.
«È proprio sicuro che non vi siete incontrati, magari nei pressi del centro commerciale di Olginate?».
Lucio notò il volto dell’amico sbiancare, anche se sembrava sforzarsi di mantenere la calma. Ma che diavolo sta succedendo?
«Non mi risulta».
Finalmente, Dino trovò la forza di intervenire in aiuto del fratello. «Senta ispettore, qui mi pare che state prendendo un granchio. Noi siamo estranei a qualsiasi cosa possa aver fatto Bassich. Perciò, se volete continuare questa conversazione dovrete farlo in presenza del nostro avvocato».
Il naso di Leone si arricciò facendo scattare le punte dei baffi. «Capisco» esclamò, annuendo. A quel punto si voltò verso i suoi uomini e fece un cenno con la testa. In un attimo, quattro pistole spuntarono fuori dalle giacche e puntarono minacciose verso il gruppo di amici.
«Ehi, ma che succede?» chiese Lucio allarmato. Le sue gambe erano diventate improvvisamente molli come panna cotta.
«Mi sembra evidente che non avete alcuna intenzione di collaborare, quindi cambiamo metodo. Ragazzi, impacchettateli!».
Usando modi bruschi, gli uomini di Leone perquisirono i giocatori di softair. Requisirono loro smartphone e ogni altro oggetto personale; uno di loro sottrasse il pacchetto di sigarette a Lucio e se lo infilò in tasca. Misero il resto degli oggetti in un sacchetto di tela poi, per finire, immobilizzarono i polsi dei prigionieri dietro la schiena utilizzando delle fascette di plastica. Gioele sussultò, mostrandosi il più terrorizzato di tutti.
«Non avete diritto di fare questo! Nemmeno se siete poliziotti!» protestò Lucio.
«Io non credo che lo siano» sentenziò Giulio in tono lugubre.
«Che significa che non sono poliziotti?» esclamò Lucio. «E allora chi siete?» continuò poi, rivolgendosi a Leone.
«Andiamo!» tagliò corto il finto ispettore, senza rispondere alla domanda.
«Andiamo dove?» volle sapere Lucio.
«In un posto tranquillo dove poter parlare lontano da occhi indiscreti».
«Abbiamo chiamato il soccorso stradale. Arriveranno a momenti» tentò di opporsi Dino, che non appariva affatto tranquillo all’idea di trovarsi a tu per tu con quegli individui.
«Non arriverà nessuno» lo stroncò Leone poi, detto ciò, s’incamminò verso il bosco. mentre i suoi sgherri costringevano i prigionieri a muoversi pungolandoli con le canne delle pistole.
Gioele sembrava essere vicino ad avere una crisi di panico. «Papà, dove ci portano?»
«Silenzio!» sbraitò uno degli uomini, piazzando un robusto schiaffo alla nuca del ragazzo.
«Ehi, lascia stare mio figlio!» si adirò inutilmente Dino.
Il tizio, dai capelli ricci e con una folta barba che gli incorniciava il mento, lo guardò in tralice. «Zitto o ce n’è anche per te!».
Dino ricambiò lo sguardo, ma desistette dal replicare qualcosa. In fondo, con le mani immobilizzate non avrebbe potuto fare nulla.
Il gruppo proseguì tra gli alberi per qualche minuto, in completo silenzio. Alcune gocce di pioggia iniziarono a cadere sulle foglie rimaste ancora attaccate ai rami.
«Ci mancava solo la pioggia» borbottò Leone.
Camminando a testa bassa, Lucio aveva capito dove li stavano portando: il paese disabitato di Consonno. Una volta arrivati, nessuno avrebbe disturbato i sequestratori dal fare qualsiasi cosa avessero in mente. Il fatto che si fossero spacciati per poliziotti non deponeva di certo a loro favore.
Saranno criminali? La mafia o magari la ‘ndrangheta?, pensò.
Poteva essere, ma non era convinto. Gli uomini avevano un fisico e un modo di agire che ricordava molto quello dei militari addestrati.
E se fossero dei servizi segreti?
Plausibile, in fondo avevano detto che quel Bassich era dell’AISE. Ma cosa avevano a che fare con Dino e Giulio? In che guaio si erano messi i suoi più cari amici?
Mentre troppe domande gli affollavano la mente, qualcosa attirò la sua attenzione: lo stesso oggetto che aveva notato durante la partita. Si trattava di una delle trappole utilizzate dai difensori del capanno. Sandro doveva aver dimenticato di ritirarla e, preso dalla discussione con Gioele, era possibile che non ci avesse fatto caso. Quel piccolo aggeggio cilindrico in grado di produrre fumo poteva rappresentare un’occasione di fuga. Lucio rifletté sul fatto che facendo scattare la trappola, l’effetto sorpresa avrebbe potuto regalargli preziosi secondi per provare a scappare. Certo, aveva le mani legate, ma sapeva correre ancora veloce. Inoltre, conosceva bene quei boschi e il caos creato avrebbe potuto spingere i suoi amici a fuggire a loro volta. Aveva buone possibilità di riuscire a seminare gli inseguitori e chiamare aiuto. Di contro, c’era la possibilità che i sequestratori sparassero alle spalle a lui o ai suoi amici.
È un rischio molto grande da correre.
La trappola era meno di due metri, proprio davanti a lui. Nessuno sembrava essersene ancora accorto. Doveva decidere in fretta: tentare oppure no?
Scelta 1: fa scattare la trappola.
Scelta 2: non fa scattare la trappola.
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