Ogni minuto e ogni secondo potevano essere determinanti per salvare la vita ai suoi amici, di questo era più che convinto. Con cautela uscì dal suo nascondiglio e avanzò verso la signora.
La donna sussultò vedendolo arrivare con addosso la mimetica zuppa di acqua e fango.
«Signora, non abbia paura» esordì Lucio, cercando di non alzare troppo la voce. «Ho bisogno del suo aiuto: dei delinquenti hanno preso in ostaggio alcuni miei amici. Mi serve il suo telefono per chiamare i Carabinieri, per favore» spiegò, realizzando solo in quel momento quanto potesse risultare assurda la sua storia.
La signora Carmela indietreggiò di qualche passo, osservandolo con gli occhi spalancati. Anche la cagna studiò lo sconosciuto, emettendo un lieve ringhio.
«La prego è davvero urgente» continuò Lucio.
«Io… non…» balbettò la signora, spaventata e confusa per quell’incontro inaspettato.
L’imbarazzo fu spezzato dall’improvviso arrivo di altri due uomini con le pistole in pugno, minacciosamente puntate verso Lucio. «Signora siamo della Polizia. Quest’uomo è un ricercato. Si allontani subito, è molto pericoloso» ordinò uno dei due, mostrando velocemente un tesserino plastificato.
«Dio mio!» esclamò la donna, sempre più spaventata. La cagna Flora iniziò a ringhiare più forte.
«Non li ascolti signora, sono impostori! Scappi e chiami il 112!» implorò Lucio.
Carmela, impietrita per la paura, non riuscì a muoversi. Il ringhio di Flora si trasformò in abbaio.
«Mani in alto!» ordinò il falso poliziotto.
A Lucio non restò altra cosa da fare che obbedire. Riconobbe Marco e Franco: immaginò che fossero ancora piuttosto incazzati.
«Torni a casa signora, qua ci pensiamo noi.»
La signora si riscosse e fu ben felice di allontanarsi in direzione della chiesa, tirando Flora con il guinzaglio.
«Tu inginocchiati, stronzo!» intimò con rabbia Marco, confermando i timori di Lucio.
Franco si affrettò a legare i polsi del prigioniero dietro la schiena con delle fascette di plastica. «Hai ferito due dei nostri, brutto figlio di puttana. Non hai idea di come te la faremo pagare.»
Deglutendo un grumo di saliva, Lucio realizzò di essere davvero fottuto.
Una Subaru Forester risaliva lentamente la strada dissestata che conduceva a Consonno. Il motore del veicolo brontolava come un animale in agguato. A bordo c’era una squadra API dei Carabinieri, quattro operatori in tutto, tre uomini e una donna. Avevano ricevuto una chiamata urgente riguardante una sparatoria e altri strani movimenti intorno al paese fantasma. Essendo la segnalazione arrivata dall’ex comandante della caserma di Olginate, era stata presa con la massima serietà.
Il SUV arrivò in vista di Consonno. Il paese abbandonato era ammantato di un’atmosfera spettrale: il vecchio minareto, l’imponente edificio abbandonato, i cui muri laterali erano coperti di graffiti, era circondato da alberi che lo nascondevano parzialmente alla vista.
«Fermati qui» ordinò il maresciallo Russo alla conducente, l’appuntato Giulia Rabai.
Il mezzo venne fermato prima dell’ingresso in paese e gli operatori smontarono senza perdere tempo. Controllarono i loro fucili d’assalto Beretta ARX 160, sistemarono i giubbotti antiproiettile e diedero un’ultima occhiata alle attrezzature.
L’aria era elettrica, carica di attesa. Per tutti si trattava della prima operazione che poteva rivelarsi davvero pericolosa.
«Seguitemi. Occhi aperti!» sussurrò il maresciallo Russo.
La squadra s’inoltrò nel paese, camminando con attenzione per evitare di fare rumore. Si muovevano in silenzio e con l’efficienza di una squadra ben addestrata.
I quattro carabinieri, avanzando in mezzo a un gruppo di folti alberi, le cui fronde frusciavano lievemente. Arrivarono in vista del minareto. La torre svettava su un fianco dell’edificio, una tetra rovina che resisteva ancora come lo sbiadito ricordo di uno splendore ormai passato. La zona era deserta e tuttavia un movimento fugace tra gli archi che contornavano la costruzione attirò l’attenzione del maresciallo.
«Nico, prendi posizione a destra. Giulia a sinistra, Giacomo dietro con me.»
L’appuntato Nicola Savoia annuì e scomparve rapidamente tra gli alberi, insieme a Giulia Rabai, per raggiungere le rispettive postazioni. Il carabiniere scelto Giacomo Di Lorenzo seguì Russo più vicino al minareto.
Il maresciallo si inginocchiò dietro un grosso tronco spezzato e sollevò il binocolo per osservare l’edificio. Vide un’ombra muoversi dietro una finestra dalla vetrata spaccata. «C’è qualcuno dentro» mormorò.
Rabai, che si era avvicinata al lato sinistro, sussurrò nel microfono del suo auricolare: «Due soggetti armati di pistola davanti all’ingresso.»
Il maresciallo annuì, pur sapendo che nessuno poteva vederlo. «Informo il comando. Procediamo con cautela. Prendiamo posizione e attendiamo il via libera. Non corriamo rischi inutili.»
«Ricevuto.»
Russo prese la radio e si mise in contatto con i superiori. «Comando da API1: squadra in posizione. Due soggetti armati in vista. Almeno un altro dentro un edificio. Attendo disposizioni.»
«Movimento in arrivo dalla strada» avvisò improvvisamente Savoia, dalla sua posizione defilata.
Russo e il resto della squadra si congelarono in attesa di capire meglio la situazione.
Lucio era trascinato con forza lungo la strada deserta da Marco e Franco. I sequestratori non parlavano, ma si limitavano a spingerlo e strattonarlo, ignorando le sue proteste. Il cuore di Lucio batteva furiosamente nel petto, l’angoscia e il terrore gli stringevano la gola. Sentiva il rumore dei loro passi sul terreno umido e il vento freddo che gli sibilava intorno, ma soprattutto l’odore di morte che sembrava pervadere l’aria.
Quando raggiunsero l’edificio, Lucio fu spinto con brutalità attraverso una porta cigolante. Sentì il rumore del legno marcio sotto i suoi piedi e un improvviso odore di muffa e decomposizione. Roberto e Gianni, di guardia all’ingresso, si fecero una sonora risata.
Marco scaraventò il prigioniero in avanti, facendolo inciampare e cadere a terra.
«Bentornato» lo accolse Leone dietro di lui, con gelida ironia. «È stata piacevole la tua passeggiata?»
Con le mani che mani tremavano, Lucio tornò a fatica in piedi prendendo coscienza dell’orrore che lo circondava: i corpi di Giulio, Dino e Gioele giacevano scomposti nella stanza, gli occhi spalancati e vuoti. Le loro ferite raccontavano una storia di dolore e violenza.
Soffocò un urlo, mentre la sofferenza nel suo petto diventava insopportabile. «No, no, no, no…» balbettò. Le lacrime cominciarono a rigare lungo le sue guance ricoperte di fango e sporcizia. «Giulio… Dino… Gioele…».
Non era tutto. Nella penombra, scorse altre due figure a terra. Erano i due uomini che aveva ferito durante la fuga, vivi ma malconci. Espressioni furiose stampate in faccia.
«Guarda cosa hai fatto a Beppe e Salvatore» sibilò Leone, con un tono gelido. «Hai combinato tutto questo casino per nulla.»
Lucio sentì il mondo girare intorno a lui. Le immagini dei suoi amici uccisi, i lamenti dei feriti e il freddo giudizio negli occhi di Leone si mescolavano in un vortice di disperazione. Il dolore era troppo forte per essere sopportato.
«Perché?» riuscì a dire, con la voce rotta dai singhiozzi.
«Perché hai voluto fare l’eroe» rispose Leone. «E ora la pagherai cara.»
«Io…» Lucio cercò di parlare, ma le parole morirono sulle sue labbra quando il primo pugno gli colpì lo stomaco, facendolo piegare in due dal dolore. Leone lo colpì ancora e poi ancora. Ogni pugno che affondava nelle carni di Lucio era un castigo brutale per la sua fuga.
«Davvero credevi di poterti nascondere da noi?» urlò l’aguzzino, con il volto deformato dalla furia. Ogni parola era accompagnata da un altro colpo, un altro atto di violenza che lasciava il prigioniero sempre più debole e insanguinato.
Lucio gemette, incapace di difendersi, il suo corpo era divenuto ormai un involucro di dolore e disperazione. Le immagini dei suoi amici morti lo tormentavano, rendendo ogni pugno ancora più devastante. Sentiva il gusto del sangue in bocca e il suono delle ossa che si incrinavano sotto i colpi incessanti di Leone.
La vibrazione improvvisa di uno smartphone interruppe quel momento di follia. Leone lasciò andare Lucio, che cadde a terra come una marionetta senza fili, inerme e tremante. Si affrettò a rispondere al telefono. «Sì?»
«Ho appena saputo che è stata attivata una squadra API. Potrebbero già essere da voi» annunciò la voce dall’altro capo.
«Ne sei sicuro?».
«Sì, i carabinieri sono sulle vostre tracce. Se non vi muovete subito siete fottuti!»
La rabbia negli occhi di Leone si trasformò in una preoccupazione fredda e calcolatrice. «Ricevuto. Ce ne andiamo.»
Marco si avvicinò al suo capo. «Problemi?»
«C’è una squadra API in arrivo.»
«Merda!»
«Tranquillo. Chiudiamo questa storia e andiamo via.»
Steso sul pavimento, Lucio capì di essere arrivato al capolinea. Da grande appassionato di tematiche militari quale era, conosceva le squadre API dei carabinieri. I soccorsi potevano essere vicini e, tuttavia, non abbastanza per salvarlo. Vedere spuntare una pistola nella mano di Leone lo convinse della correttezza della sua supposizione.
«Lucio, hai dimostrato coraggio, non posso negarlo. Vorrei che avessimo un’alternativa, ma purtroppo non ne esiste una.» La sua voce era tornata all’improvviso calma.
Lucio sollevò lo sguardo, i suoi occhi erano pieni di dolore, rabbia e rassegnazione.
Leone caricò il colpo in canna e rimosse il caricatore. «Marco, tienilo sotto tiro.»
«Che vuoi fare?»
«Fa quello che ho detto!»
Marco obbedì a malincuore. Estrasse la pistola e la puntò alla testa di Lucio.
«Bene.»
A sorpresa, Leone consegnò la sua arma al prigioniero. «Ti offro una via d’uscita onorevole. Un solo colpo. Fai la scelta giusta.»
Marco deglutì, sorpreso da ciò che stava accadendo davanti ai suoi occhi, e si lamentò: «Non abbiamo tempo da perdere con queste stronzate!»
Leone annuì senza distogliere lo sguardo da Lucio. «Lo so, ma questo deve essere fatto.»
Lucio, con mani tremanti, prese la pistola. Sentiva il peso freddo dell’acciaio dell’arma, un’ultima prova del suo destino ormai segnato. Guardò Leone negli occhi, cercando inutilmente una scintilla di umanità in quel volto impassibile.
Lentamente portò la pistola alla testa. Il metallo freddo contro la sua tempia era un ultimo, gelido, tocco della realtà. Chiuse gli occhi, cercando di trovare un minimo di pace nei suoi ultimi istanti.
Marco, dal canto suo, osservava la scena con crescente ansia. «Leone, dobbiamo muoverci» insistette. La sua voce era incrinata dal nervosismo. «I carabinieri potrebbero essere qui da un momento all’altro.»
«Ho capito.»
Leone fece un passo indietro, puntando lo sguardo su Lucio. «Sbrigati. Non abbiamo tutto il tempo del mondo.»
Lucio inspirò profondamente. Ogni battito del suo cuore era come un rintocco funebre. Pensò ai suoi amici, a tutto ciò che aveva perso. Sollevò le palpebre e guardò Marco, sempre più impaziente di andarsene. Poi, con un ultimo, disperato sospiro, chiuse di nuovo gli occhi.
Gli uomini di Leone erano già fuori dall’edificio. Sebastiano e Franco si erano offerti volontari per aiutare i compagni feriti. Roberto e Gianni tenevano d’occhio l’area intorno al minareto alla ricerca di segnali di pericolo. Tutti quanti avevano estratto le loro pistole.
«Non mi piace» disse Gianni.
«Neanche a me» ribatté Roberto. In quel momento notò qualcosa che lo allarmò: una sagoma scura in mezzo agli alberi.
«Sono arrivati!» avvisò.
La squadra API uscì in quel momento dalla boscaglia, con i fucili pronti a sparare. «Carabinieri! Gettate le armi!»
«Col cazzo!» rispose Gianni, aprendo il fuoco.
Dentro l’edificio, il rumore della sparatoria che era appena scoppiata, creò un attimo di smarrimento generale. Leone si voltò verso la finestra, cercando di capire cosa stesse accadendo fuori. Marco, già nervoso, fece un passo indietro tenendo la pistola sempre puntata sul prigioniero.
Fu in quel momento che Lucio vide la sua opportunità: senza esitare rivolse la pistola contro Marco e tirò il grilletto.
Il proiettile esplose dalla canna e l’uomo, centrato al petto, venne scagliato all’indietro come un manichino. Mentre cadeva a terra, con il viso deformato dalla sorpresa e dal dolore, tirò d’istinto il grilletto. Le due detonazioni quasi simultanee fecero trasalire Leone. La pallottola di Marco mancò Lucio di pochi centimetri, colpendo il muro dietro di lui.
Leone si voltò, la rabbia ora mescolata a una fredda determinazione. «Maledetto figlio di puttana!» urlò.
La luce del tardo pomeriggio, che filtrava attraverso le finestre rotte della vecchia struttura abbandonata, gettava lunghe ombre sui muri scrostati. L’aria era impregnata dell’odore di muffa e polvere. Nel salone principale, circondato da mobili rotti e detriti sparsi, Lucio stava in piedi, barcollando leggermente, con il viso tumefatto e sanguinante. I suoi respiri erano affannati, ogni movimento gli causava un dolore lancinante. Intanto, all’esterno, la sparatoria si faceva più accesa.
Di fronte a lui, Leone lo fissava con uno sguardo glaciale. «Pensi davvero di poterti mettere contro di me?» ringhiò con voce tagliente, avvicinandosi a Lucio con spavalderia. «Hai fatto l’ultimo errore della tua vita.»
Lucio, con un occhio quasi chiuso e un labbro spaccato, strinse i denti. Non aveva scelta: doveva difendersi. Con un grido di rabbia e disperazione si lanciò contro l’avversario. Effettuò un perfetto placcaggio da giocatore di rugby che Leone non riuscì a evitare. I due caddero a terra avvinghiati, rotolando tra i detriti. Lucio sentiva le costole dolergli a ogni movimento, ma la sua determinazione lo spinse a ignorare la sofferenza.
La lotta fu feroce e caotica. Volarono pugni da ambo le parti, i fiati ansimanti si mescolarono. Lucio si ritrovò l’orecchio del contendente davanti alla bocca. Senza pensarci, morse la morbida cartilagine fino a quando non sentì sul palato il sapore ferroso del sangue. Leone gridò come una bestia ferita. Lucio si guardò rapidamente intorno: la pistola di Marco era a pochi passi da lui. Rotolò su un fianco e si rimise faticosamente in piedi. Rialzandosi raccolse uno dei pezzi di mattone che ricoprivano il pavimento assieme ad altri rottami. Lucio guardò Leone, anche lui aveva adocchiato l’arma abbandonata, poi, senza esitare, scattò verso l’avversario e lo colpì con violenza alla tempia destra con il pezzo di mattone. Leone grugnì di dolore e cadde a terra, sanguinante. Lucio ne approfittò per colpirlo con un calcio al fianco che lo fece piegare. Leone tentò di reagire, ma era ancora stordito e i suoi riflessi erano rallentati. Lucio intravide la possibilità di chiudere la lotta e non perse tempo: alzò la mano armata di mattone e la calò ancora sulla testa dell’uomo che lo aveva trascinato in quell’incubo poi, muovendosi con tutta la velocità che poteva, raggiunse la pistola e la raccolse. Si voltò lentamente verso Leone, ancora stordito dall’ultimo colpo subito. Un grosso bozzo era già comparso sulla fronte.
«Finisce qui» sibilò ansimando Lucio, cercando di mantenere ferma la mano con la quale impugnava la pistola. «Tu e i tuoi scagnozzi avete fatto abbastanza danni.»
Leone si rialzò, barcollando, dal pavimento. «Non hai il coraggio di sparare» lo sfidò. Il suo sorriso era sprezzante, ma i suoi occhi tradivano una scintilla di paura.
Lucio avanzò di un altro passo con la pistola saldamente puntata sull’avversario. Con la mano sinistra gli afferrò il collo e lo spinse contro il muro. Premette la canna dell’arma sul petto del nemico. «Non sfidarmi» intimò, con voce bassa e minacciosa. «Ormai non ho più niente da perdere.»
Leone tentò di reagire, cercando debolmente di colpire Lucio con un pugno al fianco, ma Lucio, con un’energia rinnovata dalla disperazione, schivò il colpo e spinse il suo nemico ancora più forte contro il muro. La vecchia carta da parati si strappò sotto la pressione.
Il silenzio tra loro era carico di tensione, rotto solo dai respiri affannosi di Lucio. Anche il vecchio edificio sembrava trattenere il fiato, aspettando la prossima mossa.
Fu Leone a cedere, abbassando lo sguardo per un momento. «Va bene. Hai vinto tu» mormorò. «Sparami, se non lo fai tu, ci penseranno loro.»
Lucio tremava, il dito sul grilletto, ma le parole di Leone lo fermarono. «Loro chi?»
«Prima di morire, il tuo amico Dino li ha chiamati “Consorzio”. L’unica cosa che so è che controllano praticamente tutto in Italia. Non si fermano davanti a niente e possono arrivare dovunque vogliano.»
Quella rivelazione confuse ancora più Lucio. Chi poteva essere così potente?
Fuori gli spari erano cessati. Leone riprese a parlare, la voce era rauca ma sicura: «Stanno arrivando i Carabinieri. Se vuoi sopravvivere, racconta loro che non sai nulla di questa storia. Non menzionare né Bassich, né il Consorzio.»
La pistola tremante stretta in mano, Lucio era combattuto: desiderava vendetta, voleva che Leone pagasse per tutto ciò che aveva fatto, soprattutto per la morte dei suoi amici, ma tuttavia non aveva mai ucciso nessuno a sangue freddo. Ne sarebbe stato capace?
Leone era pronto a chiudere il sipario. «Dai, Lucio. Fallo. Dimostra che sei migliore di me.»
Scelta 1: uccide Leone.
Scelta 2: risparmia Leone.
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