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7° Puntata

Tutti i suoi muscoli erano tesi allo spasimo, teneva gli occhi stabilmente puntati verso l’ingresso della stanza e il dito indice sul grilletto, con le nocche che sbiancavano per la tensione. I passi avanzarono lentamente e poi si fermarono davanti alla porta chiusa. Lucio trattenne il respiro: il suo cuore batteva così forte da fargli temere di avere un infarto in arrivo.

Col cavolo che rimango qui!

Lucio scattò verso la finestra nel momento stesso in cui la porta veniva spalancata con un calcio e un uomo armato faceva spavaldamente irruzione nella stanza. Un istante prima di trovarsi inquadrato nel mirino della pistola del suo avversario, Lucio si gettò fuori dalla finestra.

L’uomo sparò un paio di volte, ma i suoi proiettili andarono a vuoto. «Bastardo!» inveì. Mentre si avvicinava alla finestra con la pistola in punteria, un tratto di pavimento crollò repentinamente sotto i suoi piedi. Le sue gambe vennero inghiottite da una voragine e per salvarsi dal precipitare fu costretto ad aggrapparsi a ciò che rimaneva del pavimento.

Lucio, dopo un volo di un paio di metri, atterrò sbattendo malamente il ginocchio destro sul cemento. Una fitta lancinante gli attraversò la gamba e anche la sua vecchia ernia inguinale fece del suo meglio per aumentare il suo malessere. Sentì che le forze lo stavano abbandonando, ma l’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio ancora una volta.

Non devo mollare!

Stringendo i denti, si rialzò in piedi e iniziò a correre zoppicando, più che mai deciso a vendere cara la pelle.

Esibendosi in un’imbarazzante sequela di imprecazioni, l’inseguitore riuscì con fatica a risalire dal buco nel pavimento, poi raggiunse la finestra e guardò a destra e a sinistra, giusto in tempo per vedere il fuggitivo sparire dietro a un angolo.

«Fanculo!» imprecò ancora, poi usò Zello per comunicare con il resto dei compagni. «Da Seba a tutti: soggetto in fuga verso il centro del paese.»

Gioele, ormai quasi incosciente per il dolore e la spossatezza, fu trascinato da Roberto e Gianni fino al negozio abbandonato. Leone, con il naso tumefatto a causa della testata ricevuta, stava aspettando all’interno, seduto su una vecchia sedia arrugginita. Ai suoi piedi erano accasciati Dino e Giulio.

«Portatelo dentro, che ci ha già fatto perdere troppo tempo questo stronzetto!» sibilò Leone appena li vide arrivare. Si alzò dalla sedia per fare posto al nuovo arrivato. «Prego, accomodati.»

Gioele fu fatto sedere sulla sedia. «Papà! Zio! Che vi hanno fatto?»

Leone diede un calcio a Dino. «Hai visto che ti ho riportato tuo figlio?»

Dino sollevò a fatica la testa: il suo volto era gonfio come quello di un pugile alla fine di un match cruento. Rivoli di sangue gli scendevano dal naso e dal lato delle labbra spaccate. Attraverso le strette fessure delle palpebre riconobbe il volto del figlio.

«Gioele…» disse con un filo di voce. Dalla sua bocca colava un misto di sangue e saliva. «Lasciatelo andare, è solo un ragazzo!» continuò parlando a fatica, dopo aver girato il capo verso Leone.

«Te l’avevo detto che la fuga sarebbe durata poco» ribatté il carnefice.

«Però, Lucio non c’è… Hai perso venti euro…» Era stato Giulio a parlare, a occhi chiusi, con un filo di voce. Ogni parola pronunciata gli aveva procurato sofferenza.

Leone sorrise. «Sei quasi morto e hai ancora voglia di scherzare…» Schioccò le dita per richiamare l’attenzione dei suoi scagnozzi. «Roby, il coltello, per favore.»

«Subito».

«No, vi prego!» implorò Dino.

Roberto estrasse il pugnale tattico e lo consegnò al suo capo.

«Noi non sappiamo nulla… Perché continuate a tormentarci?».

Leone non si degnò di rispondere. Attese qualche secondo per portare la tensione nervosa delle sue vittime al massimo e poi, con una mossa rapida e sicura, affondò sadicamente il coltello nella gamba di Gioele, proprio nel punto in cui si trovava la frattura. Il ragazzo emise un urlo, quasi animalesco, quando la punta della lama arrivò all’osso spezzato.

«Basta vi prego, basta!» implorò Dino con tutto il fiato che aveva. Leone mostrò un ghigno diabolico mentre torceva il coltello nella ferita. L’aguzzino tappò la bocca a Gioele, soffocando un altro terribile grido di dolore. Era evidente quanto traesse soddisfazione da quella tortura.

«Basta per Dio! Vi dirò tutto, ma smettetela vi prego! Basta!» continuò Dino tra i singhiozzi. Aveva raggiunto il punto di rottura, il suo cuore di padre non poteva sopportare la vista del figlio che veniva torturato. «Lavorate per il Consorzio, vero?»

Leone aggrottò le sopracciglia, incuriosito. «Non so di cosa parli. Spiegati meglio».

Dino emise un sospiro di sconforto. «Bassich mi ha detto che in Italia esiste un’organizzazione occulta formata da un manipolo di potenti imprenditori, chiamata Consorzio. Hanno influenza su istituzioni, forze di polizia, militari, servizi segreti…»

«Ok, ok, ho capito» lo interruppe Leone, agitando una mano. «Chi ci ha ingaggiati non è una cosa che ti riguardi. L’unica cosa che ti deve interessare è la tua stessa vita. Se vuoi salvarti ora dimmi dove si trovano Bassich e compagni».

La resistenza di Dino era ormai arrivata al limite: nella speranza di salvare la vita di suo figlio raccontò tutto: da quando era stato contattato da Giorgio Bassich al momento in cui lo aveva aiutato a fuggire dall’Italia, insieme a Paolo Ferrone e Linda Moser. Le parole gli uscirono come un fiume in piena.

Quando ebbe terminato, Leone annuì soddisfatto. «Hai visto? Non era difficile, no? Se lo avessi fatto prima avresti evitato tutto questo…o forse no» concluse mentre si portava dietro a Gioele. Posò la lama del coltello sotto alla gola del ragazzo, gli tirò indietro la testa per i capelli poi, con un movimento netto, gli squarciò la gola. Mentre eseguiva la sua sentenza di morte non aveva smesso nemmeno per un istante di fissare Dino con un feroce sorriso stampato sul viso.

«No! Gioele! No!» gridò Dino. «Bastardo! Sei un maledetto assassino!» urlava Dino, agitandosi sul pavimento con rinnovate energie.

Giulio riuscì ad aprire gli occhi, senza però avere la forza di pronunciare alcuna parola.

«Sì, hai ragione, sono un bastardo!» ammise Leone, scoppiando a ridere. Osservò con attenzione Gioele che annaspava mentre il sangue zampillava copioso dalla sua carotide recisa, imbrattando la mimetica. Il ragazzo si dimenò per meno di trenta secondi, poi appoggiò il mento sul petto e rimase immobile.

Leone si voltò verso Roberto e gli riconsegnò il coltello. «Grazie per il prestito. Saresti così gentile da passarmi la pistola?»

Seppur disturbato dalla scena appena vista, il compare gli porse la sua arma, sulla quale aveva provveduto a montare il silenziatore. Dino osservò la scena senza reagire. La sua vista era appannata dalle lacrime: la morte del figlio era stato uno shock troppo forte che lo aveva svuotato di ogni energia.

«Allora, da chi iniziamo? Ambarabà ciccì coccò» Leone eseguì la macabra conta usando la punta del silenziatore per indicare a turno i due fratelli. «Il dottore si ammalò, ambarabà ciccì coccò!»

La pistola si allineò sul volto di Giulio, pallido come un lenzuolo ma dallo sguardo ostinatamente orgoglioso. Prima di eseguire la sentenza Leone si chinò a raccogliere i venti euro che aveva scommesso e li infilò nella tasca del malcapitato. «Questi te li sei proprio guadagnati.»

Una leggera pressione sul grilletto e un proiettile si conficcò nella testa del malcapitato, che esplose in una fontana di sangue.

Subito dopo, Leone puntò la pistola contro Dino. «È stato un vero piacere parlare con te.»

«Marcirai all’inferno» pronunciò il morituro con le labbra tremanti.

Leone scrollò le spalle. «Probabile».

La signora Carmela abitava nel vicino paese di Olginate e ogni domenica portava la sua cagna Flora a passeggiare nei boschi. Adorava camminare per le silenziose strade di Consonno, anche sotto la pioggia. Secondo i progetti del suo ideatore, il conte Mario Bagno, la cittadina sarebbe dovuta diventare la “Las Vegas italiana”. E per un po’ di tempo era stato davvero così. La signora Carmela ricordava le migliaia di visitatori che arrivavano negli anni Sessanta, soprattutto nei fine settimana. Suo padre ce l’aveva portata molte volte e in un’occasione erano riusciti a vedere persino Pippo Baudo.

D’un tratto Flora si fermò di colpo e iniziò ad annusare l’aria. Tra l’odore di erba bagnata a Carmela sembrò che la cagna percepisse qualcosa.

«Che ti prende, tesoro?».

Nascosto dietro un arbusto, Lucio vide la signora che teneva al guinzaglio un bell’esemplare di Golden Retriever. Stavano passeggiando nei pressi dell’antica chiesa di San Maurizio, lei indossava una mantellina e reggeva un ombrello con la mano destra.

Deve avere per forza un telefono, pensò.

Lucio rifletté sul fatto che i proprietari dell’agriturismo dovevano aver già allertato le autorità, tuttavia, ipotizzò che ci sarebbe voluto del tempo prima che arrivassero a ispezionare Consonno. Se li avesse contattati lui avrebbe potuto fornire informazioni più precise e accelerare i soccorsi. Di contro coinvolgere la signora avrebbe significato mettere a rischio la sua vita. Una nuova decisione terribile era in attesa di essere presa: coinvolgere la donna o lasciarla andare via.

Scelta 1: chiede aiuto alla signora Carmela.

Scelta 2: lascia andare via la Signora Carmela senza coinvolgerla.

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